Mohamed: «Ci rimetterò io, anche se non sono nemmeno musulmano»

Alcune testimonianze raccolte in città dopo i fatti di Parigi: «Isis, Al Qaeda, sono tutti pazzi: non capiscono il Corano»

«Non sono musulmano, ma ci rimetterò io di quello che è successo a Parigi e sai perché? Perché mi chiamo Mohamed e sono scuro di pelle». Mohamed ha trent’anni, è marocchino e lavora come educatore a Ravenna da tre anni. «Non tutti i nord africani sono musulmani come pensano in molti in Italia, e non tutti i musulmani sono uguali tra loro. Quando abitavo in Marocco mio padre aveva le birre nel frigorifero, non la trovavo una cosa strana. Ma quando sono tornato a trovarlo ho visto che non le aveva più. Sta invecchiando, ha paura della morte, e ora è diventato un musulmano devoto, come capita agli anziani». E la satira di Charlie Hebdo? «Loro prendono in giro tutte le religioni, non solo i musulmani, ma ho notato che gli occidentali non capiscono il significato che per un musulmano ha l’immagine di Maometto. Vedere una vignetta su Maometto per un musulmano è come per un italiano sentire qualcuno che offende la madre, anzi forse peggio. Molti musulmani inoltre vedono i giornalisti occidentali come cattolici, anche se non lo sono, che attaccano l’Islam e non capiscono l’aspetto ironico, prendono la cosa come un insulto».

Youssef invece è un uomo molto credente. È alto e calvo, parla con un tono sereno, sembra una persona timida, dosa le parole sforzandosi di parlare in un buon italiano: «Chi ha compiuto quell’attentato non è un vero musulmano. Isis, Al Qaeda, sono tutti pazzi. Quella è politica, la religione è un’altra cosa. Non c’entra niente con quelle persone. Se loro pregano lo stesso Dio che prego io, non capiscono le parole che leggono dal Corano. Io credo che non lo leggano, lo recitano a memoria senza comprendere ciò che dicono le loro stesse bocche». Youssef frequenta la moschea, ma non quella delle Bassette che «è troppo lontana e io non ho la macchina», prega in una moschea ricavata da un garage in via Trieste. «Siamo in molti lì, tunisini, algerini, marocchini, ma anche dall’Asia. L’Imam non pronuncia mai la parola jihad perché ha paura. La parola jihad significa sforzo, fare fatica. È anche la fatica del vivere quotidiano, una parola che appare molte volte nel Corano, ma l’Imam non la pronuncia mai. Ha troppa paura che qualcuno possa fraintendere». Ci sono persone che apprezzano il califfato islamico in moschea? «No, non parliamo di politica, ma di religione. E abbiamo già i nostri piccoli problemi perché ci sono anche rivalità e gelosie interne tra i musulmani delle varie nazioni, ognuno vorrebbe prendere le decisioni per tutti». A predicare solitamente nella moschea di via Trieste è un algerino, ma anche tunisini che si alternano.

Bechir invece è uno dei tunisini che vive in Italia da più tempo nella comunità. È a Ravenna da vent’anni, ha le guance scavate, il volto molto scuro rispetto ai concittadini su cui spiccano due occhi azzurri come il mare delle spiaggie di Mahdia. «Sono musulmano, ma non praticante. Diciamo che mi sono occidentalizzato nei modi di fare – sorride –. Non frequento la moschea e bevo un po’ di birra, ma credo in Allah e ho rispetto per le parole del profeta. Sono comunque un musulmano migliore di quei fanatici terroristi. Volevano colpire dei bambini, ti rendi conto? Nel Corano c’è scritto che anche nelle più atroci guerre non bisogna mai toccare bambini, anziani e alberi, perché sono sacri per Dio. Nessun musulmano può riconoscersi in quello che è successo a Parigi. Io sono venuto in Italia perché qui si sta bene, mi trovo bene con gli italiani e posso vivere meglio qui che nel Paese dove sono nato. A pagare il prezzo più alto dei danni provocati da questi terroristi in realtà siamo soprattutto noi. Non mi stupirei se scoprissero un giorno che l’estrema destra o qualche agente segreto li ha lasciati fare o addirittura aiutati, perché saranno loro a trarne il maggior vantaggio».

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