I ricordi di Natale Bianchedi, da Rijkaard alla Nazionale ripudiata. E su Sacchi: «Scrive di calcio più con compiacenza che competenza».
Bianchedi era finito ad allenare per caso, dopo una carriera da calciatore finita a poco più di vent’anni a Caltagirone, alle porte della serie C («Non avevo la testa, e preferivo correre dietro alle ragazze») e la successiva chiamata del Fusignano, da cui partì la sua avventura in panchina, sulle orme di Gigi Radice, precursore negli anni settanta di quel pressing a tutto campo divenuto poi l’arma dell’Arrigo nazionale. Con Sacchi la collaborazione e l’amicizia nascono in tempi lontani e si fanno più strette agli inizi degli anni Ottanta, quando si scambiano consigli tattici anche via lettera.
Il primo colpo fu quello che segna probabilmente l’intera carriera di Bianchedi da osservatore. «Fui inviato in Spagna per Ronald Koeman (storico centrocampista olandese del Barcellona, a quei tempi al Psv Eindhoven, impegnato in coppa contro il Real Madrid, ndr) ma non mi sembrava il giocatore ideale per il gioco di Sacchi». Piuttosto, Bianchedi si innamora di un certo Frank Rijkaard che formerà insieme a Gullit e Van Basten (loro due già al Milan all’arrivo di Bianchedi) il leggendario trio degli olandesi. «E l’acquisto di Rijkaard fu la prima vittoria di Sacchi su Berlusconi. Il presidente infatti al posto dell’olandese voleva l’argentino Borghi, ma Sacchi lo convinse…». Su pressioni ovviamente di Bianchedi, che si schermisce. «Il merito è sempre di chi ci mette i soldi, di chi compra il giocatore…».
Tra gli altri ricordi nitidi di quegli anni c’è l’incontro con Maradona, a un evento di beneficenza a Venezia. «Con Arrigo scherzando pensammo di buttarlo giù dal vaporetto – ricorda sorridendo Natale –, ma in realtà ci parlò di alcune difficoltà con il suo allenatore, Ottavio Bianchi, e fu come se ci avesse aperto la strada per la rimonta…». Era il primo anno di Sacchi al Milan, quello che finì con la vittoria al San Paolo proprio contro il Napoli di Maradona, il sorprasso e il primo scudetto dell’era Berlusconi.
L’avventura di Bianchedi in rossonero prese una pausa con l’addio di Sacchi del 1991: pochi mesi dopo erano entrambi di nuovo insieme, ma nella nazionale italiana. «Così oggi posso dire, senza timore di smentite, di essere l’unica persona in Italia, allenatori a parte, ad essermi dimesso di mia volontà da Milan e Nazionale, mica poco…». Il rapporto con gli Azzurri, infatti, non è mai decollato e dura pochi mesi, fino al torneo negli Stati Uniti del 1992, preparatorio ai mondiali di due anni dopo che Sacchi perderà ai rigori contro il Brasile. In Nazionale Bianchedi non manda giù le ingerenze politiche, la presenza di molte persone che secondo lui poco avevano a che fare con il calcio. «Sono arrivato che non ero nessuno, rispetto allo staff degli azzurri, e certo non sembravano essere felici, in federazione. Arrigo voleva che fossi io ad andare alle partite, ma per due volte, a Roma e Milano, non trovai gli accrediti e me ne tornai a casa».
Poi il ritorno al Milan, senza più Sacchi, ma voluto da Fabio Capello che ne aveva raccolto l’eredità. Di quei tempi è l’innamoramento (calcisticamente parlando) per un ragazzino di nemmeno 18 anni che si chiamava Ronaldo. «Lo andai a osservare in Brasile, dove ormai ero di casa, nel derby tra il suo Cruzeiro e l’Atletico Mineiro e rimasi impressionato. Al mio ritorno, poche ore prima la finale di Coppa dei Campioni di Atene (quella storica in cui il Milan strapazzò il favoritissimo Barcellona di Johan Cruijff, ndr), Capello mi chiese se era davvero così forte e se era già pronto per il Milan. Risposi di sì». Ma Berlusconi non lo comprò. «Probabilmente non lo prese neanche mai in considerazione, pian piano furono altre logiche a prendere il sopravvento nel calcio mercato, si compravano giocatori solo legati a certi giri, a certi procuratori, per fare un favore a qualcuno o per non rovinare i rapporti con qualcun altro».
Tra i colpi che hanno avuto la benedizione di Bianchedi di quegli anni anche quello del Pallone d’oro Jean-Pierre Papin. «Lo voleva Berlusconi, non era un giocatore in grado di inserirsi in un gioco di squadra, ma era un finalizzatore. A fine allenamento, quando ancora era in Francia, era impressionante vederlo esercitarsi in area di rigore, facendo gol anche da bendato…».
La seconda parte di vita rossonera di Bianchedi – prima di terminare la propria carriera al Parma con Carlo Ancelotti – coincide anche con il ritorno di Sacchi dopo la parentesi Tabarez, che Natale ricorda come «un gran signore», nel 1997, «l’anno del disastro».
In quel momento c’è anche una frizione tra i due amici. «Sacchi resterà nella storia del calcio grazie a una grande intelligenza e alla sua capacità di assemblare, di prendere il meglio di alcuni suoi maestri, come il colombiano Francisco Maturana, che personalmente considero il Cézanne degli allenatori (Natale è un appassionato d’arte, al punto da finire con il farsi regalare alcune riproduzioni di dipinti dagli inservienti del museo del Prado di Madrid, dove tornava ogni volta che poteva, ndr). Ma Sacchi aveva una sola idea di calcio e non c’è niente di più pericoloso di un’idea, quando è la sola che abbiamo. Lui, praticamente, ha allenato solo una squadra, quella dei giocatori del Milan. Un vero allenatore di caratura internazionale, invece, deve essere in grado di adattarsi ed esaltare le qualità dei grandi giocatori in un’organizzazione di gioco. Oggi – è la frecciata finale – Arrigo è invece finito, ed è un peccato, a parlare di calcio, ma più con compiacenza che con competenza».