La spia ravennate dietro ai successi del grande Milan

I ricordi di Natale Bianchedi, da Rijkaard alla Nazionale ripudiata. E su Sacchi: «Scrive di calcio più con compiacenza che competenza».

BianchediBerlusconi lo chiamava «il ministro degli esteri» del suo Milan. E tanto potrebbe bastare per definire Natale Bianchedi, nome storico e che ritorna puntuale sulla bocca di qualsiasi ravennate abbia sfondato o anche solo sfiorato il calcio che conta. Braccio destro di Arrigo Sacchi nel Milan dei cosiddetti Immortali, quello considerato tra le squadre più spettacolari della storia del calcio moderno, Bianchedi la rivoluzione di Sacchi (il gioco a zona, il pressing e la tattica del fuorigioco) l’aveva anticipata da allenatore con il suo Bellaria tra Promozione e quarta serie, quando con un gruppo di giovani si fece notare anche al di fuori della Romagna.

Bianchedi era finito ad allenare per caso, dopo una carriera da calciatore finita a poco più di vent’anni a Caltagirone, alle porte della serie C («Non avevo la testa, e preferivo correre dietro alle ragazze») e la successiva chiamata del Fusignano, da cui partì la sua avventura in panchina, sulle orme di Gigi Radice, precursore negli anni settanta di quel pressing a tutto campo divenuto poi l’arma dell’Arrigo nazionale. Con Sacchi la collaborazione e l’amicizia nascono in tempi lontani e si fanno più strette agli inizi degli anni Ottanta, quando si scambiano consigli tattici anche via lettera.

Arrigo SacchiPoi nel 1987 Sacchi venne scelto da Berlusconi per rilanciare il suo Milan. «Mi chiese di accompagnarlo subito, ma inizialmente preferii continuare ad allenare a Bellaria, fino a che non mi chiamò disperato dopo l’eliminazione in coppa, con una squadra spagnola…». Era l’Espanol, nei 16esimi di Coppa Uefa. L’avventura di Sacchi al Milan era iniziata male. Poi si raddrizza fino a diventare straordinaria, probabilmente anche grazie a Bianchedi, che parte così per Milano per diventare quello che poi sarà considerato da tutti come la spia di Sacchi, l’osservatore spedito in ogni parte del mondo per trovare giocatori funzionali al gioco del tecnico fusignanese o a spiare le squadre avversarie. «La difficoltà del mio lavoro stava nel cercare di capire come un determinato giocatore poteva inserirsi nel gioco di Arrigo – racconta Bianchedi –, che non significava solo valutare qualità tecniche, ma leggergli qui (con due dita indica la fronte, ndr), capire se aveva i tempi di gioco giusti e anche scoprire la sua vita fuori dal campo».

Il primo colpo fu quello che segna probabilmente l’intera carriera di Bianchedi da osservatore. «Fui inviato in Spagna per Ronald Koeman (storico centrocampista olandese del Barcellona, a quei tempi al Psv Eindhoven, impegnato in coppa contro il Real Madrid, ndr) ma non mi sembrava il giocatore ideale per il gioco di Sacchi». Piuttosto, Bianchedi si innamora di un certo Frank Rijkaard che formerà insieme a Gullit e Van Basten (loro due già al Milan all’arrivo di Bianchedi) il leggendario trio degli olandesi. «E l’acquisto di Rijkaard fu la prima vittoria di Sacchi su Berlusconi. Il presidente infatti al posto dell’olandese voleva l’argentino Borghi, ma Sacchi lo convinse…». Su pressioni ovviamente di Bianchedi, che si schermisce. «Il merito è sempre di chi ci mette i soldi, di chi compra il giocatore…».

olandesi MilanL’asso olandese («con lui avevo un rapporto particolare,  sapeva che l’avevo portato io in Italia») finirà con il coincidere forse con il momento più bello della storia di Bianchedi, decidendo con un suo gol la finale di Coppa Campioni di Vienna con il Benfica del 1990. Quindici giorni prima quella partita, Bianchedi era a Lisbona a seguire gli allenamenti del Benfica di Sven-Goran Eriksson. «Stavano insistentemente provando una mossa anti-Arrigo – ricorda ancora Natale – per cercare di arginare l’ormai celeberrima tattica del fuorigioco di Sacchi. Gliene parlai nel dettaglio…». Come sempre, al telefono fisso, nell’era pre-cellulare, una volta arrivato in albergo, anche nel cuore della notte, e rigorosamente in dialetto romagnolo. In quell’occasione Sacchi grazie a Bianchedi studiò una contromossa che rese la finale contro il Benfica poco spettacolare, quasi senza fuorigioco (una stranezza per il Milan di quegli anni), decisa solo da un inserimento del centrocampista olandese. E i meriti di Natale vengono riconosciuti con l’emozionante applauso di tutta la squadra al suo arrivo (in ritardo) alla cena dopo la finale vinta.

Tra gli altri ricordi nitidi di quegli anni c’è l’incontro con Maradona, a un evento di beneficenza a Venezia. «Con Arrigo scherzando pensammo di buttarlo giù dal vaporetto – ricorda sorridendo Natale –, ma in realtà ci parlò di alcune difficoltà con il suo allenatore, Ottavio Bianchi, e fu come se ci avesse aperto la strada per la rimonta…». Era il primo anno di Sacchi al Milan, quello che finì con la vittoria al San Paolo proprio contro il Napoli di Maradona, il sorprasso e il primo scudetto dell’era Berlusconi.
L’avventura di Bianchedi in rossonero prese una pausa con l’addio di Sacchi del 1991: pochi mesi dopo erano entrambi di nuovo insieme, ma nella nazionale italiana. «Così oggi posso dire, senza timore di smentite, di essere l’unica persona in Italia, allenatori a parte, ad essermi dimesso di mia volontà da Milan e Nazionale, mica poco…». Il rapporto con gli Azzurri, infatti, non è mai decollato e dura pochi mesi, fino al torneo negli Stati Uniti del 1992, preparatorio ai mondiali di due anni dopo che Sacchi perderà ai rigori contro il Brasile. In Nazionale Bianchedi non manda giù le ingerenze politiche, la presenza di molte persone che secondo lui poco avevano a che fare con il calcio. «Sono arrivato che non ero nessuno, rispetto allo staff degli azzurri, e certo non sembravano essere felici, in federazione. Arrigo voleva che fossi io ad andare alle partite, ma per due volte, a Roma e Milano, non trovai gli accrediti e me ne tornai a casa».

Poi il ritorno al Milan, senza più Sacchi, ma voluto da Fabio Capello che ne aveva raccolto l’eredità. Di quei tempi è l’innamoramento (calcisticamente parlando) per un ragazzino di nemmeno 18 anni che si chiamava Ronaldo. «Lo andai a osservare in Brasile, dove ormai ero di casa, nel derby tra il suo Cruzeiro e l’Atletico Mineiro e rimasi impressionato. Al mio ritorno, poche ore prima la finale di Coppa dei Campioni di Atene (quella storica in cui il Milan strapazzò il favoritissimo Barcellona di Johan Cruijff, ndr), Capello mi chiese se era davvero così forte e se era già pronto per il Milan. Risposi di sì».  Ma Berlusconi non lo comprò. «Probabilmente non lo prese neanche mai in considerazione, pian piano furono altre logiche a prendere il sopravvento nel calcio mercato, si compravano giocatori solo legati a certi giri, a certi procuratori, per fare un favore a qualcuno o per non rovinare i rapporti con qualcun altro».

Berlusconi MilanDi Berlusconi, però, Bianchedi ha un ricordo naturalmente positivo. «Era un grandissimo presidente, aveva sempre tutto sotto controllo. A volte mi diceva, “Bianchedi quanto mi piacerebbe fare il suo lavoro per qualche giorno, sempre in giro per il mondo!”. E io gli dicevo che anche a me sarebbe piaciuto fare cambio. E che si preparasse anche a congelarsi al freddo. Come quella volta a Monaco di Baviera, per esempio, dove per non farmi riconoscere vidi l’allenamento da sopra una collinetta sotto la neve con solo un cannocchiale e senza neppure i guanti». Dopo i primi tempi, infatti, tutti gli addetti ai lavori iniziarono a riconoscere la spia inviata dal Milan. «E i giornalisti appena mi vedevano fiutavano la notizia. Cercavo più che potevo di passare inosservato, come quella volta a vedere l’Antwerp, in Belgio, che facevo finta di leggere un giornale in fiammingo ma poi non seppi rispondere alla domanda di un tifoso locale, non capendo la lingua…».

Tra i colpi che hanno avuto la benedizione di Bianchedi di quegli anni anche quello del Pallone d’oro Jean-Pierre Papin. «Lo voleva Berlusconi, non era un giocatore in grado di inserirsi in un gioco di squadra, ma era un finalizzatore. A fine allenamento, quando ancora era in Francia, era impressionante vederlo esercitarsi in area di rigore, facendo gol anche da bendato…».
La seconda parte di vita rossonera di Bianchedi – prima di terminare la propria carriera al Parma con Carlo Ancelotti – coincide anche con il ritorno di Sacchi dopo la parentesi Tabarez, che Natale ricorda come «un gran signore», nel 1997, «l’anno del disastro».

In quel momento c’è anche una frizione tra i due amici. «Sacchi resterà nella storia del calcio grazie a una grande intelligenza e alla sua capacità di assemblare, di prendere il meglio di alcuni suoi maestri, come il colombiano Francisco Maturana, che personalmente considero il Cézanne degli allenatori (Natale è un appassionato d’arte, al punto da finire con il farsi regalare alcune riproduzioni di dipinti dagli inservienti del museo del Prado di Madrid, dove tornava ogni volta che poteva, ndr). Ma Sacchi aveva una sola idea di calcio e non c’è niente di più pericoloso di un’idea, quando è la sola che abbiamo. Lui, praticamente, ha allenato solo una squadra, quella dei giocatori del Milan. Un vero allenatore di caratura internazionale, invece, deve essere in grado di adattarsi ed esaltare le qualità dei grandi giocatori in un’organizzazione di gioco. Oggi – è la frecciata finale – Arrigo è invece finito, ed è un peccato, a parlare di calcio, ma più con compiacenza che con competenza».

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