Una vita tra i morti: «Volevo fare l’artista e ora vesto i cadaveri»

Le storie professionali di due operatrici dell’obitorio, tra la stima dei familiari dei deceduti e le solite scaramanzie: «A casa dimentico»

«A me i morti non hanno mai fatto paura. Mio nonno è stato l’ultimo custode del cimitero di Ravenna e sono cresciuta lì. Quando sono stata assunta alla camera mortuaria ero contenta di aver trovato un lavoro». E dire che la 34enne Caterina, la chiameremo così perché preferisce non vedere il suo vero nome sul giornale, voleva fare l’artista: «Già, mosaicista restauratrice. Poi mi sono accorta che non era una strada facile e ora faccio altro. Sarà perché da bambina dicevano che ero macabra? A volte me lo dicono ancora».

Ma Caterina è una professionista, racconta i suoi otto anni di lavoro all’obitorio di Ravenna senza mai distrarsi dai compiti del pomeriggio, facendo avanti e indietro dall’ufficio per rispondere a una richiesta o sistemare una camera ardente: «Il rapporto con i familiari è la cosa più delicata. Non c’è una regola, devi capire come reagisce la persona che hai di fronte. C’è chi non vuole nemmeno vederti e chi invece comincia a parlarti e andrebbe avanti sempre. Tu cerchi di fare il tuo lavoro nel modo migliore e cerchi di aiutarli e non è vero che si diventa meno sensibili. Fa piacere quando apprezzano la tua professionalità».

A un certo punto il turno finisce, ti togli il camice e te ne vai. Il lavoro entra tra le mura di casa? «La privacy va sempre rispettata ma con mio marito o mia sorella parliamo anche del mio lavoro, come loro mi raccontano del loro. È un lavoro». La pensa diversamente invece la 54enne Raffaella, nome di fantasia della collega di Caterina, operatrice alla camera mortuaria dal 2001. Raffaella ha quattro figli: «Non posso mica parlare del mio lavoro a casa. Altrimenti non stacchi mai dalla sofferenza. Tutti i giorni qua dentro assorbi la morte». A volte però qualcosa passa: «Mio figlio piccolo di quattro anni una volta mi chiese perché non andavo mai io a prenderlo all’uscita da scuola. E un giorno mi venne da dirgli che se quel giorno ci fossero stati pochi morticini sarei andata. Quando sono arrivata i genitori degli altri bambini ridevano perché lui aveva ripetuto quella frase. Non l’avevo detto con cattiveria». Perché conservando il rispetto bisogna pure provare a sdrammatizzare, anche per alleggerire il peso e lavorare più sereni.

È anche per questo che alle battute o ai gesti apotropaici di qualcuno si riesce a dare poco peso: «Succede. Ci sono quelli che mi dicono sempre che preferirebbero non incontrarmi. Cosa ci vuoi fare? Mica cambi la mentalità degli anziani». Però capita anche una onesta curiosità. Lo dice Caterina: «Alcuni ti fanno domande e vogliono sapere, si capisce che hanno interesse a conoscere un lavoro che qualcuno deve fare». E che nel tempo è cambiato in meglio «potendo contare su strumenti nuovi e condizioni operative migliori». Così come i corsi di formazione: tra il personale dell’obitorio c’è anche chi ha le qualifiche per assistere i medici legali in casi di autopsia.

Ma il momento più duro è quando arriva la salma di un conoscente: «Speri non succeda mai ma capita». E tra gli operatori c’è una sorta di codice non scritto, Caterina e Raffaella lo conoscono: «Ti fai forza e ti occupi tu della sua vestizione perché ti senti come se fosse il modo migliore per dargli l’ultimo saluto mettendo a disposizione le tue competenze in quel momento così delicato».

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