Poggiali, otto ore a cercare l’unanimità per l’ergastolo: tutti i dubbi dell’Assise

Pranzo al sacco, telefonini spenti, la cancelliera come unico contatto con l’esterno: è la camera di consiglio che condannato l’ex infermiera

Una volta chiusa la porta e spenti i telefonini, per otto ore non è uscito nessuno. Dall’esterno sono entrati solo i caffè affidati dal barista alla cancelliera, l’unica autorizzata a varcare la soglia della camera di consiglio. Sono state le sue visite, per avere aggiornamenti sul tempo ancora necessario, a scandire i lavori del lungo pomeriggio dell’11 marzo in cui gli otto giudici (sei popolari e due togati) della Corte d’Assise di Ravenna hanno sentenziato l’ergastolo per l’ex infermiera Daniela Poggiali.

Quel giorno si erano presentati in tribunale tutti preparati: ognuno con il proprio pranzo al sacco da casa. Avevano messo in conto, loro come la stampa e gli addetti ai lavori, la possibilità di andare per le lunghe. Una eventualità che invece, spiazzando tutti in aula, è parsa remota quando verso le 12.30 il presidente della corte, al termine delle considerazioni finali della difesa, aveva fissato il ritrovo per la lettura del dispositivo da lì a quattro ore. Al punto che qualcuno tra i presenti tra i denti aveva malignato l’ipotesi di un verdetto già pronto e la volontà di darlo in tempi comodi per il circo mediatico. C’è invece voluto il doppio con buona pace del tiggì delle 20. Una durata che lascia intuire come il verdetto sia stato un parto delicato: non c’era unanimità al momento della prima votazione, avvenuta dopo circa tre ore, e più di un segnale lascia ipotizzare che la sentenza pronunciata alle 20.15 non sia frutto di otto voti nella stessa direzione. Ma la procedura prevede che l’esito della votazione non venga reso pubblico: la maggioranza decide e quello conta.

A comporre la giuria, come detto, otto persone. Il giudice Corrado Schiaretti a presiedere i lavori e Andrea Galanti a latere. Loro i togati. A rappresentare il popolo italiano altre sei persone, con la fascia tricolore. Persone estratte a sorte tra gli iscritti a un albo comunale (richiesta la terza media e un’età tra 30 e 65 anni). Per tutte le diciotto udienze dei cinque mesi di dibattimento sono state presenti in aula anche due riserve: sarebbero subentrati in caso di assenze improvvise dei primi sei ma non è stato necessario (e non hanno quindi preso parte alla camera di consiglio). Migliaia di pagine di carte, tra verbali di udienza e perizie, da leggere per in parallelo all’andamento del processo fino al momento clou in cui tutti e otto si sono trovati attorno a un tavolo.

L’interrogativo sollevato dalla difesa – siamo sicuri si possa parlare con certezza di omicidio e non di morte naturale indagata male perché partiti già con la convinzione che fosse un omicidio? – ha ronzato nella testa dei giudici a lungo in un clima di grande pathos ma sereno. Il potassio negli occhi? Il deflussore con il Dna maschile? L’attenzione in quelle ore di tensione si è focalizzata soprattutto sui contributi apportati da quattro professionisti con le loro consulenze e testimonianze. Con lo scopo di maturare una convinzione, in senso innocentista o colpevolista, oltre ogni ragionevole dubbio come recita la giurisprudenza. Alla fine un verdetto è arrivato.

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