Violenza sulle donne, l’avvocato: «È fondamentale chiedere aiuto»

Brighi ha collaborato molto con l’associazione Linea Rosa «Di solito sono molto sole perché non parla delle difficoltà» 

Spesso si legge sui giornali o si sente in televisione di donne uccise nonostante avessero denunciato il compagno più volte per violenze. Queste clamorose ingiustizie fanno crescere un senso di sfiducia nel sistema giuridico. Come possono accadere fatti del genere? Lo abbiamo chiesto all’avvocata Paola Brighi, che ha seguito molti casi del genere collaborando per anni con Linea Rosa Ravenna, associazione che tutela e assiste le donne vittime di violenze.

Perché non si riesce a evitare il peggio nonostante la denuncia?
«Il problema spesso è che la denuncia viene sporta sull’onda della disperazione e della paura, questo può comportare che nella frenesia del momento raccontino i fatti in maniera confusa e parziale. Anche se subiscono soprusi da anni si limitano a denunciare l’ultimo fatto avvenuto. Questo complica le cose perché può diventare difficile, per l’Autorità giudiziaria che legge la denuncia, distinguere tra fatti di violenza solo episodici e delitti più gravi e diventa difficile ottenere misure cautelari».

Come dovrebbero comportarsi le donne vittime di violenza?
«Se devo dare un consiglio dettato dalla mia esperienza personale direi che come regola generale sarebbe meglio che cercassero prima di tutto aiuto e appoggio. Spesso le condizioni in cui vivono le rendono poco lucide e molto confuse; di solito sono molto sole anche perché non parlano quasi mai a nessuno, a volte nemmeno ai parenti più stretti, delle loro difficoltà e paure. I Centri antiviolenza, sempre per mia esperienza personale, hanno un ruolo fondamentale. Devono “riprendere fiato”, di fermarsi e pensare».

Come è necessario procedere per “salvarle da loro stesse”?
«È necessario un percorso di rafforzamento dell’autostima, che le porti a comprendere che la loro vita può essere diversa e che sono in grado di farsi carico della loro serenità e della loro “salvezza” anche da sole. Facendosi aiutare, ma da sole. La violenza subita genera una specie di blocco in queste donne, che diventa più forte se la violenza è durata molto tempo e anche se hanno una certa età. È ancora maggiore nelle donne straniere se abituate culturalmente a un ruolo passivo della donna, per le quali la scelta di separarsi implica spesso anche una rottura con la loro stessa famiglia».

I giudici come si comportano con queste complicazioni psicologiche che interferiscono nei casi di violenza domestica?
«Non è facile. Spesso si riscontrano grandissime contraddizioni in queste donne, nei loro racconti e nelle loro scelte, che “sballano” le normali categorie di giudizio. Da una parte c’è una situazione di violenza divenuta insopportabile e l’intenzione di farla terminare, ma dall’altra ci sono i figli e il senso del legame familiare verso il loro padre. In casi di violenza domestica denunciati dalla donna, è avvenuta che lei stessa abbia dato il consenso ad accoglierlo in casa in regime di arresti domiciliari».

Sembra assurdo: chi si prenderebbe in casa la persona che lo ha rapinato?
«In questi casi le normali valutazioni non tornano. Non si può vivere a cuor leggero che il padre dei tuoi figli, con cui hai vissuto, che hai amato, che è in fin dei conti parte di te, finisca in carcere per causa tua».

Non è però solo un fattore psicologico a inibire le denunce delle donne, c’è anche una questione economica.
«È innegabile che l’autonomia economica è il primo presupposto per l’indipendenza. Una donna che dipende economicamente dal marito, che vive in casa sua, che non ha risorse proprie, sa che se lo denuncia e decide di lasciarlo potrebbe non trovare le risorse necessarie a mantenere se stessa e i suoi figli e che anche in sede di separazione, dipenderà dal mantenimento versato dal compagno».

Come vengono tutelati i bambini in questi casi?
«C’è un intreccio di competenze che rende piuttosto complesso l’intervento a tutela dei minori che vivono in una famiglia in cui uno dei genitori è violento. C’è il giudice civile, il giudice minorile, il giudice penale (nel caso di denuncia), l’avvocato della madre, l’avvocato del padre, i servizi sociali, a volte anche consulenti psicologi nominati dal giudice per fare la cosidetta “valutazione di genitorialità”. La nuova normativa, di inizio 2014, che ha ricondotto alla competenza del giudice civile ordinario la quasi totalità di questi casi avrebbe potuto migliorare la situazione, ma ancora non è stata metabolizzata da tutti gli attori e al momento ha creato anche della confusione».

Cosa consiglia a una donna che non ha il coraggio di denunciare le violenze che subisce?
«Le direi che la violenza è responsabilità di chi la pone in essere e non di chi la subisce. Ma anche che loro sono forti abbastanza, sia per se stesse, sia per i loro bambini, da assumersi la piena responsabilità di farla cessare, utilizzando tutto quello che può aiutarle a questo fine».

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