Canzoni da un mondo che voleva cambiare

Joan Baez in concerto il 13 luglio

joan baezJoan Baez un mito della musica d’autore e della canzone impegnata made in Usa chiude l’edizione 2016 del Ravenna Festival, con un concerto antologico della sua lunga carriera di cantautrice, il 13 luglio, alle 21, al Pala De André. La cantante, con la sua chitarra, sarà accompagnata da Dirk Powell (fiddlle, banjo, mandolino, chitarra, fisarmonica, pianoforte) e Gabriel Harris alle percussioni. In scaletta il folk degli esordi, la poesia di Bob Dylan e Violeta Parra, di Woody Guthrie e John Lennon.

Sull’evento, ecco una riflessione semiseria fra arte e politica, rock e impegno sociale di Francesco Farabegoli, fondatore e autore di “Bastonate”, miglior sito musicale italiano delle ultime tre edizioni degli Oscar del web.

«Nel 1992 avevo 15 anni e sul mercato usciva questo disco a cui mi legai molto. Era il primo album, senza titolo, di un gruppo che si chiamava – nientemeno – Rage Against The Machine. Era musica molto bella per i tempi in cui usciva, e molto schierata politicamente. Il nome del gruppo in inglese significa rabbia contro la macchina, ove per la macchina si intende una non meglio specificata entità sociopolitica che molti di noi chiamavano “Il Sistema”. Non mi sono mai preso la briga di definire a me stesso cosa s’intendesse per Il Sistema, anche se ho condotto per molti anni un’esistenza le cui premesse comportavano di combatterlo sempre e comunque e a costo della vita.

Una volta lessi una cosa, mi pare fosse stata scritta da Banksy su un muro, e diceva più o meno così: in tantissimi sono disposti a soffrire per la loro arte, ma solo pochi di loro sono anche disposti a imparare a disegnare. Voglio dire che l’arte è una cosa complessa in sé, e poi ci sono le questioni politiche legate all’arte, e spesso è difficile fare stare tutte e due le cose nella stessa testa (da cui il principale problema della musica schierata di oggi, e cioè che in molti casi sta morendo dentro un cliché artistico vecchio come il cucco, o un codice etico non adatto ai tempi che corrono). Ad esempio, nel caso dei Rage Against The Machine, c’era il problema di fare arrivare a quante più persone possibile il messaggio, e questo li costringeva ad accettare un certo numero di compromessi, ed era una cosa abbastanza centrale nel discorso su di loro. Incidevano per Sony e la loro musica poteva tranquillamente andare a finire a fare da colonna sonora alla pubblicità di qualche film d’azione di Schwarzenegger su Italia1, roba concettualmente di ultra-destra il cui pubblico principale era grossomodo lo stesso pubblico che comprava i dischi dei RATM. Quando ero adolescente non era per niente un problema urlare alla rivoluzione prima di cena, mangiare la piadina fatta dalla mamma e rilassarsi in serata con la videocassetta di Commando. E questa credo sia stata una delle più grandi vittorie de Il Sistema: è riuscito a creare i presupposti per vendere la rivoluzione e l’allineamento allo stesso cliente.

Joan BaezNoi. Che a un certo punto siamo cresciuti e siamo diventati voci determinanti nel dibattito politico-culturale del paese. Il problema è che per non farci rompere le scatole in merito ai nostri consumi giovanili, abbiamo dovuto metterci d’impegno e sviluppare un sistema culturale che giustificasse più o meno tutto a prescindere dal suo significato. O in alternativa, diventare dei moderati di ultra-centro che tuttavia non disdegnano le espressioni culturali provenienti dalle frange estremiste. Ci siamo così abituati a questo clima in cui tutto va bene e niente ci definisce che, progressivamente, abbiamo mollato il complottismo e abbiamo smesso di vedere Il Sistema. Così, dalla seconda metà degli anni duemila, il complottismo è finito in mano a un’altra frangia politica ed è diventato gentismo, una specie di agenda politica in cui, ugualmente, va bene tutto a patto che sia portato avanti da persone che non siano colluse con Il Sistema (cioè politica fatta da gente che non ha mai fatto politica). Io sono rimasto indietro, ho accettato un lavoro da impiegato al servizio de Il Sistema e non riesco più ad ascoltare i messaggi dei Rage Against The Machine senza sbadigliare. Non è nemmeno più così fastidioso guardare a quel che sono diventato: riesco a vedere il me stesso di tanti anni fa senza avere una crisi interiore, e limito il mio disappunto a quelle rare volte che entro in una cabina elettorale e non trovo più la pallina rossa su cui fare la croce. Tanto per quello che serve, dice il me stesso del 2016.

Ecco, non ho mai ascoltato molta musica uscita negli anni sessanta e settanta, ma ho sempre desiderato di essere presente quando i folksinger iniziarono a cantare contro lo stato delle cose. Perchè ascolti i dischi di Joan Baez o Dylan o certe cose eccezionali di Pete Seeger, o quelli che un po’ di tempo dopo l’hanno fatto quasi uguale nel nostro paese, e dentro c’è – puro e semplice – un altro mondo. Voglio dire, i Beatles facevano una cosa che può essere presa e trasportata all’oggi in un modo più o meno uguale: stavano su un palco, suonavano, la gente sotto urlava, ed era più o meno tutto lì. Quando Bob Dylan uscì fuori probabilmente era la stessa cosa, ma poi era diventato qualcosa di più. Ad ascoltare quei dischi oggi, rimane ancora un briciolo d’impatto sociale, o almeno la percezione di un impatto che potrebbe esserci stato. Voglio dire, quando Bob Dylan cantava che the times they are a-changin’ io credo che qualcuno lo stesse ascoltando, e stesse pensando che i tempi stessero effettivamente cambiando, e che qualcun altro si stesse cacando sotto dalla paura perché in quella canzone si parlava di qualcuno che c’era, e stava per farsi sentire, e forse l’avrebbe fatto anche senza che Dylan incidesse la colonna sonora, ma ora le canzoni c’erano.

Baez DylanCosì, insomma, se parliamo di Beatles e Stones puoi metter su il disco e goderti la musica, e se parliamo di Dylan e Joan Baez puoi fare lo stesso ma devi anche sforzarti di capire da dove venga quella musica, in che contesto è stata creata, come andavano allora le cose.
Oggi suona tutto un po’ passé, ma allora forse erano canzoni scomode ed erano anche molto belle e coglievano la vibrazione che c’era ai tempi e rappresentavano qualcuno senza necessariamente volerlo portare dentro una cabina elettorale. E nei testi c’era un avvertimento a chi prendeva le decisioni, uno stiamo arrivando che somiglia a quello che stava sulla bocca dei Rage Against The Machine; ma nei Sessanta il mondo sembrava ancora un posto da cambiare, in cui sembrava esserci ancora qualche possibilità di non starci. E sembrava davvero che quelle canzoni fossero state scritte e suonate per essere la colonna sonora di una rivolta che prima o poi sarebbe arrivata. E forse a quei tempi non si doveva ancora combattere Il Sistema, e i cattivi avevano ancora un nome e un cognome e un pessimo taglio di capelli.

Ok, probabilmente le persone che le ascoltavano e sognavano il cambiamento cantato da Joan Baez hanno razionalizzato anche peggio di quanto sia successo a noi, e hanno preso il potere nel modo peggiore e sono diventati i garanti del mantenimento di quell’ordine contro cui cantavano, e oggi usano quelle stesse canzoni per le loro campagne. Ma tutto sommato credo che non sia colpa né dei RATM né tantomeno di Joan Baez, la quale canta in pubblico da quasi sessant’anni e ancora oggi ai concerti continua ad aprire la boccaccia e prender posizione contro il suo governo. Ho sentito dire che una volta chiesero a Robert Smith perché continuasse a salire sul palco truccato. Rispose, grossomodo, che sotto al palco c’erano centinaia di fan che si truccavano come lui, e non sarebbe stato lui a farli sentire degli sfigati. Joan Baez invece continua a indossare la stessa bandiera, e sotto al suo palco ormai son tutti in camicia. Ecco, di certe cose credo si debba avere quantomeno rispetto».

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