A Vulkano va in scena E’ Bal Le recensioni dei ragazzi

Le impressioni degli studenti dello scentifico dopo aver visto lo spettacolo in dialetto delle Albe

Dopo il tutto esaurito dello scorso settembre, è tornato sul palco di VulKano, a San Bartolo, E’ bal, lo spettacolo del Teatro delle Albe in dialetto romagnolo che Roberto Magnani e Simone Marzocchi hanno tratto dall’omonimo testo del poeta Nevio Spadoni. E in questa occasione le repliche dello spettacolo (in corso fino a venerdì 27) sono affiancate – tra il 16 e il 28 gennaio – da una serie di rappresentazioni per le scuole e di incontri con lo stesso Spadoni, sempre per le scuole superiori, l’università e l’Università degli adulti.

Da queste repliche per le scuole sono poi scaturite recensioni dei ragazzi, piuttosto sorprendenti considerando che si tratta di uno spettacolo appunto in dialetto.

Ne pubblichiamo volentieri qui di seguito tre scritte da ragazzi della classe IV E del liceo scientifico, sotto il coordinamento della professoressa Eliana Tazzari. Non mancano anche spunti critici.

La sala è così immersa nell’oscurità che potrebbe essere infinita come l’universo o piccola come una scatola di fiammiferi. Passa qualche secondo, o forse qualche minuto, ma il tempo non ha importanza in questa nuova dimensione creatasi con la chiusura di una porta. Poi il suono di una ruota che gira a fatica, come se trasportasse un enorme peso, emerge dall’oscurità, e una flebile luce illumina qualcosa di non ben definito sulla scena. Il rumore non si ferma, la luce si espande ancora e abbraccia due figure umane. Roberto Magnani è in piedi di fronte a un microfono, e non appena la luce dà forma al suo corpo, parte la sua canzone. Il testo è in dialetto romagnolo. Ma ha importanza? Nessuna. La musica della voce è il contrappunto del suono della tromba e degli altri misteriosi strumenti. Insieme riempiono la sala, giocando, ballando, arrivando al cuore di tutti i presenti.
Così inizia “E’ Bal” […] La storia è quella di Ezia, donna emarginata in un paese di campagna, abbandonata dall’uomo che amava, e che si trova a vagare per le strade alla ricerca di un nuovo amore, fino a perdere la ragione. Il testo, interamente in dialetto, è accompagnato dal suono e dal linguaggio informale della musica di Simone Marzocchi.
Maria Samokisheva

Un palco, una scalinata con dei cuscini, il buio. […] In scena una lamina metallica, una sega arrugginita, una macchina da cucire, una tromba. E Roberto Magnani è Ezia, una donna che viaggia in cerca del grande amore. Il suo viaggio è una danza, il ballo della vita che da brillante ed energico diviene, col passare del tempo, sgraziato e faticoso. È la sofferenza semplice ma vera di una donna di campagna. È un sogno che si tramuta in follia. Un sogno che Ezia vive nella sua lingua, il dialetto, e di cui i compaesani si prendono gioco in quel clima tragicomico cui Spadoni ci ha ormai abituati (“Lus”, “L’isola di Alcina”).
La resa teatrale è di grande effetto: Magnani fermo davanti a un microfono, i gesti ridotti al minimo, tutto è affidato alla mimica e alla voce. La fissità esteriore muove l’animo, scava nell’interiorità di Ezia, dando vita a un personaggio di potente drammaticità. Percezioni, pensieri ed emozioni volano dalla protagonista allo spettatore, che diventa anch’egli parte di questa grande illusione. La sapiente elaborazione musicale di Simone Marzocchi conferisce alla finzione un carattere quasi reale: i suoni generati dalle lamine di ferro e dalla macchina da cucire rimandano all’ambiente rustico delle campagne romagnole. La tromba si inserisce dolcemente tra questi suoni stridenti e produce un senso di dramma che pervade quasi tutta la rappresentazione. Quasi.
Discutibile infatti la scelta del quinario, musicale sì, ma senza dubbio anti-teatrale. L’enfatizzazione del ritmo rimanda al titolo, al ballo affannato di Ezia, ma rischia di creare una sorta di distacco, ostacolando l’immedesimazione. Se “Lus” travolge lo spettatore, lasciandolo col fiato sospeso dall’inizio alla fine, “E’ Bal” concede qualche respiro di troppo. Nelle parti più fortemente cadenzate la trama tende a perdersi e a perdere di significato, sfociando in un grottesco “svuotato” che, a tratti, allontana il pubblico e ne interrompe il coinvolgimento emotivo. Uno scoglio di dimensioni notevoli, che gli abili Magnani e Marzocchi superano in parte, ma non del tutto. L’attacco difatti appare quasi freddo; poi però il ritmo cede gradualmente il posto alla lirica e il calore di Ezia si mostra in grado di sciogliere anche il più scettico dei critici.
È un calore intenso, penetrante, quasi sgarbato che trova il suo specchio nel fascio di luce sparato con forza in faccia a Magnani. Lo avvolge, avvolge Ezia e la mette a nudo nella sua più profonda intimità, nei suoi più piccoli particolari, interiori ed esteriori. Una luce sobria ma densa di significato, essenziale come tutta la scenografia, perfetta per raccontare il percorso difficile di una donna semplice. Esclusa, emarginata, forse addirittura pazza, ma pur sempre donna che, in quanto essere umano, rappresenta ognuno di noi, è ognuno di noi. Tutti, in modo diverso, anche solo per un attimo, ci sentiamo Ezia, siamo Ezia. Ed è questo l’immenso potere de “E’ Bal”.
Robin Smith

Secondo Nevio Spadoni, autore del monologo “E’ Bal”, «certe cose accadono in dialetto». Ed è questo il motivo per cui il poeta ravennate ha contribuito a un percorso di ricerca sulla lingua dialettale, resa lingua d’arte e di scena con le opere “Lus”, “L’Isola di Alcina” e infine “E’ Bal”.
Spadoni ha dato vita a un testo unico, di grandi potenzialità espressive e di impronta musicale, capace di alternare fasi liriche ad altre drammatiche. Ma ciò che davvero colpisce è la straordinaria messa in scena di Roberto Magnani e Simone Marzocchi. In “E’ Bal” i suoni e le voci si fondono, duettano tra loro, a tratti gli uni accompagnano le altre, il tutto in un’atmosfera raccolta e suggestiva, con un importante ruolo svolto dalle luci. Rispetto a “LUS” si nota un significativo cambiamento dell’apporto sonoro, di impatto davvero sorprendente anche grazie al talento e alla padronanza della musica informale di Simone Marzocchi.
La storia è quella di Ezia, donna abbandonata dall’amore della sua vita e ora alla ricerca disperata di un uomo da sposare. Nel suo frenetico cammino per le campagne romagnole, simile a un ballo, metafora della vita, gli anni se ne vanno e, con loro, gradualmente, anche la ragione della donna. E tra gli elementi più caratteristici vi è senz’altro il modo con cui Roberto Magnani interpreta questo personaggio: l’attore infatti elimina quasi del tutto i gesti, facendo risaltare invece la forza espressiva del volto, resa ancora più efficace grazie all’effetto delle luci.
Così, attraverso un convincente intreccio di suoni, voci e ombre, i quinari di Spadoni, citando lo scrittore russo Lev Tolstoj,  riescono a “parlare del suo villaggio per essere universali”.
Nicolò Taroni

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