Da Ravenna all’Unicef: «L’emigrazione? Non dobbiamo costruire muri»

Il funzionario Melandri ha lavorato in trenta Paesi: «La situazione più terribile in Ruanda. Chi fugge non è terrorista, ma lo può diventare…»

Una parlata spigliata, la voglia di far vedere le cose da un altro punto di vista, di smettere di guardare il mondo dal buco della serratura. Il ravennate Lucio Melandri parla ai ragazzi del Liceo Classico Dante Alighieri di guerre, rifugiati e – soprattutto – bambini in fuga. Temi di cui si occupa, con ruoli differenti, da più di venticinque anni. Oggi è funzionario Unicef (senior Emergency Manager) e vede da vicino le grandi questioni mondiali che riempiono i comizi elettorali. Alla fine, non sono pochi gli studenti che si accalcano attorno al funzionario per porre una domanda importante per chi, a breve, dovrà scegliere un percorso di vita fuori dalla scuola superiore.

Melandri, come si diventa funzionario Unicef?
«Studiando. Nel senso che serve almeno un master per entrare nelle Nazioni Unite. Ci sono poi alcune posizioni pensate apposta per chi si è appena laureato. L’altra porta è quella delle ‘applications’: una sorta di concorso nel quale, a seconda della posizione per la quale si vuole accedere, è necessario un minimo di esperienza, anche internazionale».

Il suo percorso qual è stato?
«La prima scintilla fu a 14 anni, quando entrai nella Croce Rossa di ravenna. Dopo pochi anni ci fu il terremoto in Molise e decisi di andare a dare una mano come volontario. I professori mi incoraggiarono. Pensando a quell’episodio, oggi, capisco che è importante non considerare il volontariato o le passioni qualcosa di ‘altro’ rispetto al lavoro. Nel mio caso è diventata la mia professione, alla fine delle superiori sono entrato nella Croce Rossa Italiana e da lì è partita la mia carriera che, nel 2009, mi ha portato all’Unicef».

Quante situazioni di crisi ha affrontato?
«Ho lavorato in una trentina di paesi. Sono partito dai Balcani, poi Africa e Medio Oriente. Una delle situazioni più terribili che ricordo è stata in Ruanda, dove ho operato dal 1994 al 1997: da un giorno all’altro si costituì un campo profughi da 250mila persone dove morivano 200 bambini al giorno».

Oggi è la Siria lo scenario più caldo, cosa ne dice?
«La Siria è un paese distrutto ed è la causa del picco di migrazioni che c’è stato nel 2015 in Italia. Da quel paese sono fuggite tre milioni di persone».

Li aiutiamo a casa loro, come suggerisce qualcuno?
«Mah. Secondo me aiutare le persone tra le rovine di Aleppo bombardata o in Nigeria, con Boko Haram alle spalle non è così semplice…».

Voce dal popolo: ci siete voi dell’Onu, a che servite sennò?
«L’Unicef, che è una Agenzia dell’Onu, discute dei diritti umani con gli Stati ma nel rispetto della sovranità dei paesi. La verità è che funzionari e volontari nelle zone di crisi, senza una società civile solida alle spalle, possono fare poco».

Che può fare l’uomo della strada per questioni così grandi?
«Molto. Innanzitutto quando critichiamo i muri che vengono eretti tra gli stati, ricordiamoci che molto spesso queste barriere sono costituite non tanto dal filo spinato o dal cemento ma dai piccoli muri che tutti i giorni ci costruiamo attorno. Poi è importante cercare di capire, trovare numeri ufficiali nel sovraccarico informativo quotidiano. Capisco che non è semplice, soprattutto per i più giovani. Credo sia importante non farsi instillare il seme della paura».

E il terrorismo?
«Chi fugge non è un terrorista ma lo può diventare quando incontra l’emarginazione che porta alla radicalizzazione: rabbia incanalata nel fanatismo. Anis Amri, che ha compiuto la strage a Berlino, quando è arrivato in Italia era poco più che un ragazzino, non un terrorista. La radicalizzazione è arrivata quando l’accoglienza ha fallito e le prime persone che ha incontrato e l’hanno aiutato erano malavitosi».

L’educazione è la risposta?
«La traduzione semplificata di Boko Haram è ‘educazione vietata’. La dice lunga. Noi oggi abbiamo una grande opportunità con le migliaia di bambini che arrivano sulle nostre coste: dar loro quell’educazione che non hanno nella patria devastata dalle guerre e far sì che, un domani, loro diventino classe dirigente in grado di aiutare il loro Paese. Quella dei bambini è l’emergenza più grave: un quarto delle quasi novemila persone arrivate in Europa dall’inizio del 2017 è costituita da minori».

Sembrano numeri importanti.
«Va però ricordato che nel mondo ci sono 50 milioni di bambini che definiamo ‘sradicati’ dal proprio territorio. In tutta Europa abbiamo un terzo dei migranti che accoglie la Turchia, in Italia ne accogliamo un quarto di uno stato piccolo come la Giordania. Il vero tema è come gestire questi flussi, la risposta non sono le strutture nei quali vengono stipati. Il mercato del lavoro ha bisogno di questi migranti».

La migrazione è davvero una risorsa?
«Lo sa perché in Germania hanno accolto i profughi siriani? Hanno capito che serviva un tipo di manodopera qualificata e molti di coloro che fuggivano dalla Siria hanno queste caratteristiche. Merkel lo ha compreso, altri no. In generale la migrazione offre opportunità ma anche rischi che sono appunto l’innalzare di barriere di cui parlavo prima. E qui torniamo al tema dell’educazione».

Quando torna a casa, a Russi, cosa le dice sua madre?
«Mi fa la pasta, poi guardiamo un po’ di tv insieme. Lei è del 1923 e quando sente certi discorsi in tv sembra molto preoccupata, perché dice che le ricordano molto la situazione prima della Seconda Guerra Mondiale. Io tendo ad essere un po’ più ottimista…».

È pericoloso il suo lavoro?
«Io mi sento un privilegiato, anche se è un lavoro che costa alcuni sacrifici. Per quanto riguarda il rischio: nelle zone di guerra serve prudenza ma tra poco devo rimettermi in macchina per andare a Ginevra, dove ho la base operativa. Forse è più pericoloso un viaggio di questo tipo».

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