La storia dell’impero di Raul Gardini, vero erede di Serafino Ferruzzi

La vertiginosa parabola del Corsaro che da Ravenna fu protagonista dell’economia mondiale per tredici anni: il subentro al suocero, la scalata alla Montedison, l’inchiesta Mani Pulite, il declino e la morte 25 anni fa

La storia di Raul Gardini, dall’ascesa fino alla morte arrivata il 23 luglio di 25 anni fa, non è solo quella di un uomo, della sua famiglia e del suo gruppo industriale. È il romanzo di poco più di tredici anni del nostro Paese, in un periodo di enorme fermento dal punto di vista finanziario. Anni caratterizzati dal boom della Borsa di Milano che ha consentito la costruzione di una delle più grandi realtà private italiane. Anni che permisero la nascita di un sogno, per un breve spazio di tempo addirittura sfiorato con un dito. Un sogno che però non si avverò per l’opposizione di una parte della famiglia e di quasi tutto l’establishment politico ed economico italiano.

Gardini prende il timone da Serafino
Nato nel 1933 a Ravenna e sposato nel 1957 con Ida Ferruzzi – da cui ha avuto i figli Eleonora, Ivan Francesco e Maria Speranza – Gardini fu tra i primi industriali all’inizio degli anni Ottanta a prevedere e a sfruttare l’esplosione dei mercati azionari. Salì al timone del gruppo fondato da Serafino Ferruzzi (morto a Forlì il 10 dicembre del ’79 in un incidente aereo) superando sia la concorrenza esterna, con le “dimissioni” del dirigente genovese Giuseppe De André, sia quella interna, con il cognato Arturo che preferì defilarsi, concentrandosi su alcune attività agricole secondarie. Cominciò così a gestire il gruppo “a modo suo”, interrompendo l’opera diplomatica che il defunto suocero aveva avviato quando era venuto a conoscenza di essere gravemente malato (aveva un tumore alla gola). Spezzate le alleanze che Serafino stava intavolando con Gianni Agnelli e le Assicurazioni Generali e incassata la totale fiducia da parte dei familiari, con passo sicuro cambiò la strategia nel settore del trading, trasformando il gruppo da primo importatore europeo di derrate agricole a primo esportatore della CEE.

La “rivoluzione verde” e il controllo della Beghin-Say
Il suo primo grande successo fu la “rivoluzione verde”, l’introduzione della coltivazione della soia in Italia a larghissima scala nell’81, consentendo all’Italia di coprire nell’86 circa il 30 percento del fabbisogno. Nell’85, invece, partì il “progetto etanolo”, che prevedeva la produzione di benzina verde (bioetanolo) utilizzando le enormi eccedenze di cereali, ma l’opposizione delle compagnie petrolifere, tra cui l’Eni, nell’87 bloccarono l’iniziativa in Italia. Nel frattempo Gardini si tuffò a capofitto nel settore dello zucchero, riuscendo a conseguire nell’86 il controllo della francese Beghin-Say attraverso Eridania, facendo diventare il gruppo il primo produttore saccarifero di Europa. L’anno successivo fallì, per l’opposizione della Commissione antimonopoli inglese, l’acquisizione della British Sugar.

La scalata alla Montedison
GardiniProprio l’esperienza appresa nei complicati mercati finanziari e azionari gli consentì di attuare una clamorosa scalata alla Montedison. Approfittando delle operazioni in Borsa di Mario Schimberni, stringendo un accordo con l’imprenditore Carlo De Benedetti e “rastrellando” sul mercato una grande quota di azioni, nel giro di pochi mesi diventò il padrone del colosso chimico italiano, per una spesa di circa duemila miliardi di lire. A suggello di tutto ciò, il 4 dicembre dell’87 diventò presidente della Montedison. Il prezzo dell’operazione fu però molto alto, in quanto il gruppo dovette entrare nella sfera di influenza del sistema bancario italiano, subendo così il pesante condizionamento di Cuccia e di Mediobanca.

Il “progetto Enimont”
Gardini aveva in mente un grande piano, di cui la Montedison rappresentava solo il primo passo. La sua intenzione era quella di unire il colosso privato a quello statale, l’Eni, creando un polo unico con un fatturato di almeno 12mila miliardi di lire all’anno. Il progetto “Enimont”, considerato come l’ultima carta per rilanciare su scala mondiale l’industria chimica italiana, ricevette anche il placet del governo il 24 febbraio ’88 e nel gennaio dell’89 venne varata la fusione. Esasperato dalla lentezza dell’iter burocratico a riguardo degli sgravi fiscali promessi dal governo, manifestò la sua intenzione di prendere la maggioranza di Enimont: il 24 febbraio del ’90 Gardini dichiarò in un convegno a Padova la celebre frase «la chimica italiana sono io». Di contro, il presidente dell’Eni, Gabriele Cagliari, rifiutò la proposta di un aumento di capitale, aggravando lo scontro tra pubblico e privato. Le tensioni diventarono sempre più forti e il 9 novembre del ’90 la magistratura, accogliendo la richiesta dell’Eni, stabilì il sequestro delle azioni Enimont (nel corso delle inchieste della magistratura, nel ’93, verrà però fuori che sia il giudice Curtò, che ordinò il “fermo temporaneo”, sia il custode provvisorio nominato, Vincenzo Palladino, fecero entrambi il lavoro “sporco” a favore dell’ente statale). Pochi giorni dopo l’Eni fissò in 2.805 miliardi di lire il prezzo per acquisire l’intero colosso, un costo troppo alto per Gardini, che fu così costretto a cedere la sua quota. In realtà avrebbe voluto comprare, ma l’opposizione della famiglia e le “raccomandazioni” di Cuccia lo costrinsero a desistere dall’intento: deluso e arrabbiato, il giorno stesso della cessione (il 22 novembre ’90) lasciò tutte le cariche ricoperte in Italia nel gruppo Ferruzzi.

Il tradimento della famiglia
Il voltafaccia dei familiari si trasformò presto in “tradimento” nel ’91: Gardini era intenzionato a spostare dall’Italia alla Francia il centro degli interessi del gruppo, ma incontrò la resistenza in particolare di Alessandra Ferruzzi e del marito Carlo Sama. L’11 giugno, nel corso del consiglio di amministrazione della cassaforte di famiglia, la Serafino Ferruzzi, Gardini (che non si presentò) fu destituito da Arturo, che ne diventò presidente. Lo strappo era ormai inevitabile e portò alla separazione: il 1° agosto Arturo, Franca e Alessandra acquisirono la quota di Ida e “liquidarono” il cognato, il tutto al costo di 505 miliardi di lire.

Una nuova avventura di successo
Con i soldi di questa enorme buonuscita il “Contadino” mise in pratica da solo il progetto proposto ai familiari, quello di spostare i propri interessi in Francia, facendo entrare nell’agosto del ’91 la neonata società Gardini Srl nel capitale della Société Centrale d’Investissment. Non si fermò qui, però, fondando in breve tempo la Gea (holding nel settore agroalimentare), la San Diego (creata per allacciare accordi con gruppi industriali messicani), la Isa (servizi e consulenze per la piccola e media impresa) e la Garma (polo alimentare che diventa il maggiore produttore di acque minerali in Italia). In poco più di un anno e mezzo, così, Gardini costruì un nuovo grande gruppo con circa 2.700 miliardi di lire di fatturato.

Il crack del gruppo Ferruzzi
Le cose non andavano però altrettanto bene per il gruppo Ferruzzi, con Sama intenzionato a ridurre le dimensioni dell’azienda e il numero di attività industriali a causa delle enormi difficoltà economiche emerse nei conti a fine ’92. Nel maggio del ‘93, in due distinti incontri, Sama e Arturo Ferruzzi chiesero a Gardini di ritornare nell’azionariato della Serafino Ferruzzi, ricevendo però un rifiuto. Bocciato il progetto di ristrutturazione, il salvataggio del gruppo passò nelle mani delle banche creditrici, che fecero il loro ingresso anche nella Serafino Ferruzzi, diventandone azioniste di maggioranza. La famiglia di fatto venne estromessa dalla gestione operativa, con il riordino finanziario e strutturale attuato direttamente da Mediobanca: il 18 giugno ’93 la gestione del risanamento industriale fu assegnata a Enrico Bondi, mentre come garante fu posto Guido Rossi. Il 23 giugno Gardini fece pubblicare da Il Sole-24 Ore una lunga lettera in cui respingeva ogni responsabilità sul crack, mentre qualche giorno dopo manifestò la sua disponibilità a essere ricevuto dai magistrati per fornire le proprie conoscenze sui conti del gruppo.

La magistratura indaga
In quei mesi, inoltre, partì l’inchiesta delle procura di Roma e di Milano sui presunti illeciti avvenuti nel periodo compreso tra la costituzione e lo scioglimento dell’Enimont. Il 13 luglio venne arrestato a Ginevra l’ex presidente di Montedison, Giuseppe Garofano, che nel primo interrogatorio svelò ai magistrati tutti i meccanismi con cui venivano create le disponibilità extracontabili per pagare le tangenti a favore dei partiti di governo, coinvolgendo Gardini e Sama. I responsabili della realizzazione di queste ingenti somme di denaro erano Giuseppe Berlini e Sergio Cusani. Detenuto da più di quattro mesi nel carcere di San Vittore, il 20 luglio l’ex presidente dell’Eni, Cagliari, si suicida.

Il “suicidio” di Gardini
Nonostante le sue continue richieste, Gardini non era ancora stato ascoltato dai magistrati milanesi, fino a quando, il 22 luglio, il giudice per le indagini preliminari Italo Ghitti firmò l’ordine di arresto. La sera stessa l’imprenditore disse ai suoi avvocati di essere pronto a raccontare tante cose ai magistrati, ma la mattina seguente fu trovato morto nella sua stanza da letto della sua residenza milanese a Palazzo Belgioioso: la versione ufficiale fu quella del suicidio. Una versione che fin dal primo momento lasciò tanti dubbi e interrogativi ancora irrisolti: non è stata chiarita con esattezza l’ora del decesso, il cadavere fu rimosso prima dell’arrivo della polizia scientifica, nessuno sentì il rumore dello sparo della pistola, non è stato stabilito chi abbia spostato la pistola, trovata lontana dalla scena del suicidio, il bossolo fu rinvenuto sul pavimento a tre metri di distanza e la ricerca di eventuali impronte sull’arma in oggetto ha dato esito negativo.

La “maxitangente Enimont”
Seguirono giorni, settimane e mesi di fuoco, iniziati con l’arresto di Sama per passare con le rivelazioni di Giuseppe Berlini, uomo di fiducia del gruppo, e i conti che non tornano nei bilanci del gruppo Ferruzzi (scoperti altri “buchi”), finendo con la ricostruzione della cosiddetta “maxitangente Enimont”. Due i processi: il primo con Cusani unico imputato, che cominciò il 28 ottobre ’93, mentre il secondo (inizio il 24 maggio ’94) vide alla sbarra dirigenti del gruppo Ferruzzi e della Montedison (Garofano e Sama), intermediari (su tutti Bisignani), politici (tra gli altri Craxi, Forlani e Cirino Pomicino) e loro collaboratori. I reati di cui gli imputati vennero prima accusati e poi condannati erano false comunicazioni sociali, illeciti finanziamenti ai partiti, appropriazioni indebite (per un totale di oltre 152 miliardi).

La condanna di Cusani
Il primo dei due processi terminò il 28 aprile ’94 con la condanna di Cusani a otto anni di carcere. Nello stesso dispositivo di sentenza i giudici di Milano scrissero che Cusani spinse Gardini a delinquere e nel corso della requisitoria Di Pietro disse, riferendosi all’imputato: «Ai politici andarono solo il tozzo di pane, il malloppo è rimasto nelle sue tasche. Ha tradito i politici, Sama, il gruppo, la famiglia Ferruzzi. È stato traditore anche con Gardini, che quella sera, prima di uccidersi, voleva venire a parlare con noi ma era disperato perché lui gli aveva dato i rendiconti. Ha il dovere, nel rispetto di chi è morto suicida, di darci spiegazioni su dove sono finiti la gran parte di quei soldi».

Lo smembramento del gruppo
L’ultimo capitolo di quello che sembra un tragico romanzo, ma che invece è realtà vera, riguardò il “salvataggio” del gruppo Ferruzzi, che in definitiva si trattò di uno smembramento. Sotto la regia di Cuccia e delle banche creditrici il piano di risanamento attuato da Rossi e Bondi operò una manovra combinata su tre fronti: dismissioni, aumenti di capitale a cascata, riduzione dell’indebitamento. Tutto quello che era stato conquistato dalla famiglia ravennate tornò così ai “legittimi” proprietari, con i dovuti interessi. Fu un grande scippo, come confermato dopo qualche anno, nel ’97, in un documento redatto dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato della Banca d’Italia, dal titolo “Indagine conoscitiva sui servizi di finanza aziendale”: il gruppo Ferruzzi era sì in difficoltà, ma poteva essere salvato grazie a una serie di dismissioni delle attività collaterali.

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