L’esordio letterario dell’ex assessore Alberto Cassani: «Scrivere è emozionante»

L’ex coordinatore di Ravenna 2019 ha pubblicato un romanzo per Baldini+Castoldi. «Il protagonista ha vissuto esperienze simili alle mie, ma da altri punti di vista è quasi il mio opposto»

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L’uomo di Mosca è il primo romanzo di Alberto Cassani, assai noto in città per aver ricoperto per lungo tempo la carica di assessore alla Cultura, dopo la laurea in Lettere e prima di fare il coordinatore della candidatura a Capitale Europea della cultura 2019 (poi come noto persa a favore di Matera). Si tratta di una spy story ambientata tra la città dei mosaici e la capitale dell’allora Unione Sovietica. Il protagonista, ex assessore egli stesso, scopre dal nonno, comunista morto a novant’anni e a lungo tesoriere del partito a Ravenna, che qualcosa è rimasto in sospeso nel momento in cui è crollata l’Urss. Da lì parte una vicenda con una trama che intreccia la grande storia, la riflessione politica, la vita privata del protagonista e sfodera una galleria di personaggi in una sorta di confronto generazionale. Non c’è un’idealizzazione del comunismo in quanto tale, ciò che si può al limite rimpiangere, leggendo il libro, è appunto un’idea collettiva e meno individualista della società. Mentre anche il protagonista sembra sempre più tentato verso un ripiegamento nel privato, disilluso dallo spazio pubblico, eppure incapace di abbandonare quella storia a tratti incredibilmente avventurosa (ma che dal punto di vista del plot funziona).

Ne abbiamo parlato con l’autore proprio mentre il libro, il 30 agosto, arrivava nelle librerie di tutta Italia pubblicato dalla casa editrice Baldini+Castoldi.

Cassani Testina BandellaL’uomo di Mosca è un libro che mette insieme più cose: le riflessioni e i bilanci personali di un protagonista cinquantenne, una riflessione sulla fine di un’epoca e di un’idea della politica, una vera e propria “spy story”. Qual è stata l’urgenza narrativa che l’ha spinta a scrivere?
«Avevo bisogno di prendere una distanza dalle cose e insieme di coglierne il lato più intimo e più vero. La scrittura, per me che ho sempre avuto una passione letteraria, era una forma privilegiata per cercare di realizzare questo doppio movimento».
C’è anche l’idea di non lasciare una storia chiusa in un cassetto, in un garage polveroso, ma di tramandarla in qualche modo di generazioni, sembra. Ma esattamente quale storia? Quella di un partito? Di un periodo politico? Di un modo di intendere la politica?
«Direi di una concezione e di una prassi della politica in cui il cinismo non era fine a se stesso, ma era ancora al servizio di una visione del mondo e di un grappolo di valori e di ideali».
Pur senza facili nostalgie, sembra però di cogliere l’idea che un tempo tante persone fossero più pronte al sacrificio, meno corruttibili. Eppure ci si accordava con operazioni non proprio trasparenti per poter finanziare il partito e parte del denaro passava di qua. Era dunque davvero un mondo migliore?
«Non si può dire che fosse un mondo migliore, ma certo la politica aveva una dimensione etica più strutturata, misurata su orizzonti più ampi, su finalità più universali, su dedizioni più profonde. Per la sinistra era più facile identificarsi ed essere identificata, era più chiaro cosa significasse lottare contro le disuguaglianze e rispondere ai bisogni di una comunità, esisteva un senso della solidarietà radicato nel locale ma proiettato a livello planetario. Il Partito ne era lo strumento e veniva prima di ogni altra cosa. Il mondo di ieri, più lento, più duro e più povero, permetteva tutto questo».
Il protagonista è un uomo di una cinquantina che ha un passato da assessore a Ravenna, ha un nonno con una biografia simile a quella di suo nonno, frequenta un circolo dal nome curioso che ricorda tantissimo il più blasonato circolo cittadino che l’autore racconta con esplicita, se non caustica, ironia. Possiamo parlare di auto-fiction? Come ha lavorato sull’elemento reale e come sull’invenzione?
«Tutti i romanzi hanno caratteri da auto-fiction, perché ogni autore parte da una base autobiografica su cui inserisce elementi di finzione. Diciamo che il mio protagonista, da un certo punto di vista, ha vissuto esperienze simili a quelle che ho vissuto io, ma da altri punti di vista è quasi il mio opposto».
Ci sono personaggi che finiranno con il riconoscersi, in città. Preoccupato che qualcuno possa non apprezzare il proprio ritratto?
«No, perché i personaggi tratteggiano tipologie umane, non ritraggono persone realmente esistenti».
Ma davvero la massoneria è ancora così potente e pervasiva in città come la racconta il suo romanzo?
«Il mio è solo un romanzo, ma non c’è dubbio che la Massoneria rappresenti un “potere forte” e Ravenna ne sia una delle capitali. Poi, quanto forte sia il suo potere non ho elementi per stabilirlo».
Tra le riflessioni sulla città che più forse colpiscono c’è quella su Ravenna come luogo di ossimori. E soprattutto incapace di progettare sogni adatti alle sue dimensioni: o le ambizioni sono eccessive, da capitale, o di piccolo cabotaggio, da provincia. Crede che sia ancora così e che ci sia il modo di liberarsi di questa sorta di “maledizione” della capitale?
«Credo che sia ancora così. Ma credo anche che la consapevolezza di questa incompiutezza e il disagio che può derivarne siano le uniche basi su cui si possa provare a costruire qualcosa di importante».
Scrivere è stato un piacere o una fatica? Una necessità o un passatempo? E, soprattutto, intende continuare a farlo?
«Scrivere un romanzo è un’esperienza emozionante, dà un senso di onnipotenza, ma ti pone continuamente di fronte ai tuoi limiti. Fornisce stimoli intellettuali di cui, a un certo punto, non si può più fare a meno. Per questo spero di continuare a farlo».
Le manca la politica in prima linea?
«In questo momento, no. Mi sto occupando d’altro (Cassani è nello staff dell’assessorato regionale al Turismo, ndr). E poi, se già non si era capito, non mi piace la psicopolitica contemporanea dove tutto è ridotto a reazione emotiva e dove lo sproloquio dei social media ha ormai inghiottito il dibattito pubblico».
Andrà a Matera nel 2019? Ed è soddisfatto di come viene trattata in città l’eredità lasciata dall’esperienza di candidatura?
«Penso che andrò a Matera, anche perché il mio amico Paolo Verri, grande estimatore del nostro progetto di candidatura, mi ha già invitato più volte. Rispetto all’eredità di Ravenna 2019, ho idea che essa conservi una sua forza oggettiva, visto che mi pare che alcune delle più significative iniziative culturali di questi anni fossero presenti nel nostro dossier di candidatura».

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