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Scuola online e voti, la prof: «Tutti i banchi sono uguali. E anche le cattedre»

La replica di Ilaria Cerioli, insegnante di scuola superiore di Ravenna, a un articolo pubblicato da Ravenna&Dintorni. Al centro del dibattito le pagelle ai tempi delle lezioni da casa

Riceviamo e pubblichiamo una lettera aperta firmata da Ilaria Cerioli, professoressa di scuola superiore a Ravenna. Il testo vuole essere una replica dopo un nostro articolo pubblicato online il 17 aprile in cui riportavamo un pensiero espresso dalla docente in un post sulla sua bacheca Facebook. Cerioli ha criticato, sempre dallo stesso social network, la nostra scelta di prendere quanto da lei postato per riportarlo sul nostro sito perché, a suo parere, troppo sintetico e quindi rischioso di risultare superficiale e tendenzioso.

Diamo spazio alla replica della professoressa ma per fare chiarezza cogliamo l’occasione per alcune precisazioni da parte nostra, a beneficio anche dei lettori.

Il post è stato pubblicato su un profilo aperto e quindi visibile e condivisibile da chiunque anche se non virtualmente amico della professoressa che è anche blogger e scrittrice e ha quindi confidenza con i mezzi di comunicazione anche perché collabora con la stampa locale. Ma soprattutto quel post ci è sembrato che avesse tre caratteristiche importanti e anche rare su Fb: pur essendo sintetico entrava nel merito della questione e proponeva la visione dei fatti di un’addetta ai lavori con un punto di vista diverso rispetto alla linea scelta dal ministero. Se qualcuno titolato a dire la sua espone, in maniera circostanziata, un parere che si stacca dalla linea ufficiale secondo noi la sua pubblicazione a beneficio di nostri lettori non fa altro che offrire un spunto di riflessione in più. Ed ecco perché l’abbiamo pubblicato.

A seguire la lettera di Ilaria Cerioli.

Ilaria Cerioli, docente di scuola superiore, scrittrice e blogger

“Tutti i banchi sono uguali” (e, aggiungo io, anche le cattedre). Così si intitola il libro di Christian Raimo (Einaudi 2017), in cui l’autore compie una riflessione critica e documentata sulla scuola. Parlare di scuola non è certo facile perché ognuno di noi ha una sua visione: i genitori ricordano i cari vecchi tempi della loro esperienza tra i banchi e molti pensano che nulla sia cambiato da Don Milani ad oggi; dirigenti e docenti, invece, sono ingabbiati in una burocrazia elefantiaca che inutilmente si impone di normare una complessità in continuo divenire. Oppure, secondo la solita retorica comune, il lavoro dell’insegnante varia da missione a professione privilegiata. Dura a morire, infatti, è la vulgata dei tre mesi estivi di vacanza! Per questo ritengo sia doveroso da parte mia spiegare l’articolo che Ravenna e Dintorni ha pubblicato il 17 aprile prendendo spunto da un mio post critico verso le parole della Ministra Lucia Azzolina.

Ammetto di avere avuto la fortuna essere entrata di ruolo quasi subito rispetto a tanti colleghi e di avere rivestito ruoli diversi che mi hanno permesso una visione ampia e articolata del mio lavoro. Insegno in un istituto superiore, dove si sono avvicendati per lo più dirigenti illuminati che mi hanno concesso di lavorare con serenità. Non ho mai considerato la mia professione una missione e se posso, preferisco terminare tutti gli impegni a scuola, perché a casa ho una vita. Non appartengo alla categoria di quelle docenti che trascorrono notti insonni a correggere verifiche. Di notte preferisco dormire. Per quanto mi riguarda è un lavoro come tanti altri, con diritti e doveri da onorare.

Penso però anche che sia un mestiere bellissimo in quanto mi permette di sentirmi viva in un mondo dove non c’è più spazio per chi invecchia o vive di ricordi. E, prima di essere sputata via da una società arrogante, provo ad assolvere quel compito banale a cui sono stata chiamata quando ho firmato il contratto: trasmettere cultura. Il mio dovere, infatti, non è solo “insegnare”, ma trasmettere valori universali attraverso la letteratura e la storia. Mi rifiuto di essere un dispenser di nozioni e non approvo neppure la semplificazione per cui “sono un’insegnante e dunque insegno!”. Perché prima del mio ruolo mi immagino come essere umano che interagisce con altri esseri umani. Il mio compito non è quello di pretendere performance dai miei studenti. Il mio, è un compito educativo, accompagnarli, cioè, in un percorso di crescita comune e condiviso per entrare nel mondo degli adulti.

E’ anche vero che rifiuto, come Girolamo De Michele (La scuola è di tutti, Minimum Fax 2010) un modello di scuola museale dove il voto sta diventando sempre di più identità della persona. Per questo non sono d’accordo con le parole della Ministra che pongono al centro di nuovo l’insufficienza come deterrente ai “lavativi e a chi non si impegna” senza riflettere che in una situazione così grave possono esserci mille motivi per cui viene meno l’interesse. Inoltre non trovo corretto basare la valutazione sul primo quadrimestre o, per le superiori, al trimestre. E’ diritto degli studenti, infatti, avere tempi adeguati per i recuperi, cosa che non è stata sempre possibile perché molti di noi, quando è avvenuto il lockdown erano ancora impegnati nelle verifiche.

Ma, proprio perchè ci troviamo difronte a un cambiamento per tanti aspetti bello e terribile, non possiamo permetterci né di essere superficiali né di rincorrere in modo consolatorio il caro vecchio modello. Siamo tutti chiamati a una sfida straordinaria e, guardate, noi docenti l’abbiamo capito subito! Ognuno di noi, chi meglio chi peggio, si è impegnato a mantenere attiva la scuola. Nessuno ha abbandonato il campo di battaglia, magari ci siamo presi tempo per capire cosa dovevamo fare e come.  Se nessuno nasce imparato anche per noi cambiare da un giorno all’altro una modalità didattica consolidata non è stato certo semplice. E se, all’inizio ero molto scettica sull’online, oggi credo sia solo una soluzione d’emergenza che però ci ha permesso di crescere professionalmente e di instaurare un clima più disteso e costruttivo con gli studenti. Grazie alle telecamere, infatti, è venuta meno quella distanza emotiva che divide la cattedra dai banchi. La scuola ha rivelato il suo volto umano e democratico. Tutti noi, alunni, famiglie e docenti ci siamo visti accumunati nella medesima sorte, abbiamo condiviso paure e incertezze.

E, in un contesto così fragile è naturale che il voto sia venuto meno. Non più un simbolo di potere in mano alla categoria, ha rivelato tutta la sua inconsistenza proprio perché sono venuti a mancare i paradigmi su cui si basava il monitoraggio delle prestazioni. In compenso però sta emergendo qualcosa di nuovo e di straordinario. La possibilità, cioè, di una maieutica non basata sull’obbedienza da caserma ma sul desiderio di apprendere. In questo frangente la scuola non è sentita come un obbligo ma come un’opportunità e un diversivo dopo tante ore lontano da amici, dallo sport e dagli affetti.

Non ho intenzione di valutare i miei alunni secondo gli schemi obsoleti. Metterò al centro la loro partecipazione, il loro ruolo attivo, e la loro capacità di interazione con me. Nessuno di noi ha avuto indicazioni precise su come dovevamo procedere o griglie condivise adeguate. Ma, nonostante la precarietà credo sia avvenuto un piccolo miracolo: si sono rotti equilibri e sono emerse prepotenti tutte le criticità di un organismo che si reggeva su modelli di valutazione per nulla neutrali, su una mania di classificazione e un formalismo che alla luce dei fatti sta facendo acqua da tutte le parti.