Le mille vite di Ivano Marescotti, dal lavoro in Comune ai film internazionali

A tu per tu con l’attore di Villanova di Bagnacavallo, che a 76 anni ha annunciato il ritiro dalle scene per dedicarsi alla sua accademia di teatro: «Ma non si può “insegnare” a recitare, bisogna lavorare per essere credibili»

Marescotti Anthony Hopkins

Marescotti con Anthony Hopkins

[AGGIORNAMENTO: Ivano Marescotti è morto nel pomeriggio di domenica 26 marzo, all’età di 77 anni]

Gli attori imparano nella loro carriera ad avere mille volti diversi. Ivano Marescotti lo ha fatto anche nella vita.

È stato perito del Comune e attivista politico, potevi sentirlo recitare la domenica sera in dialetto alla festa dell’Unità e vederlo il lunedì al cinema con Ridley Scott. Insomma, una personalità dalle mille sfaccettature, che ora sta per intraprendere una nuova vita: quella di maestro, accanto a Erika Leonelli che tra poche settimane diventerà la sua terza moglie.

Lui non può ricordarselo ma quando incontrai per la prima volta Ivano Marescotti era a metà degli anni ’90, avevo dodici anni. Eravamo in un capanno da pesca a una festa con tante persone, mi feci coraggio e gli feci una domanda. Sognavo di diventare un attore, e gli chiesi come avrei dovuto fare. Lui mi rispose con una frase (che scoprii molti anni dopo essere un suo mantra): «Och, stomac e bus de cul». Bisogna avere occhio per cogliere le opportunità, stomaco per sopportare le avversità e fortuna, per… Beh, quella aiuta sempre. Io non sarei diventato un attore, ma quel consiglio mi è comunque tornato utile.

Sono passati molti anni da allora, oggi Ivano Marescotti ne ha 76 e ha appena dichiarato pubblicamente il suo ritiro dalle scene. Non reciterà più. Dopo 120 film e un numero incalcolabile di spettacoli e recital ora si dedicherà solo ai suoi studenti della TAM – Teatro Accademia Marescotti a Marina di Ravenna.

Lo incontro in un piccolo studio nel borgo San Rocco. Sono passati tanti anni, ma è sempre uguale, battuta pronta e un mare di aneddoti da raccontare. Parliamo per circa due ore, che adesso dovrò condensare purtroppo sacrificando qualcosa.

Iniziamo dall’infanzia. Sei nato a Villanova di Bagnacavallo, che ricordi hai di quegli anni?
«Eravamo una famiglia molto felice, nella miseria più nera. Non avevamo nemmeno l’acqua in casa e il bagno era a cinquanta metri di distanza. Però non si litigava mai. Sapevamo che esistevano “i ricchi”, ma nessuno in paese ne aveva mai visto uno».

E ora che effetto ti fa essere tornato a vivere a Villanova?
«È strano, non conosco più nessuno».

Da bambino andavi al cinema? Che film ti piacevano? E a teatro?
«Il teatro era una cosa di cui ignoravo l’esistenza, ci sarei andato solo a liceo. Il cinema invece era la mia passione. Ci andavo tre volte alla settimana. Jerry Lewis era il mio mito, e adoravo “i caplàz”, ovvero i film western, di cui storpiavamo, senza saperlo, i nomi di tutti gli attori, come John Wayne che per noi era Gion Ven. Quando iniziò la moda della televisione, il giovedì al cinema di Villanova, tra il primo e il secondo tempo, portavano in sala, con una prolunga, un piccolo televisore per vedere Lascia o raddoppia: cosa non si faceva per non perdere gli spettatori!».

E poi sei andato a lavorare per il Comune di Ravenna…
«Della famiglia sono stato l’unico ad aver la fortuna di poter studiare e trovai lavoro come geometra, ma non mi piaceva. Provai ad aprire un ristorante a Bologna, ma prese fuoco, così tornai tristemente in ufficio».

La tua carriera lampo è famosa, è vero che diventasti attore professionista dalla sera alla mattina?
«Avevo 36 anni, un lavoro fisso, in teoria ero sistemato, ma una sera ospitai a casa un amico attore, un argentino, che aveva accettato un lavoro, ma che poi avevano chiamato per una parte più importante. Così mi chiese di andare al posto suo all’incontro con la compagnia che voleva bidonare, per prendere tempo. Io ci andai e quelli, tanto erano disperati, mi fecero salire in scena. Senza nessuna prova debuttai come protagonista di uno spettacolo per bambini che fece 15 repliche consecutive».

E con il lavoro? Come trovasti il coraggio di licenziarti?
«All’inizio prendevo delle ferie, poi decisi di buttarmi e vedere se imparavo a nuotare».

E i colleghi, cosa ti dissero?
«Pensavano che fossi diventato matto. Non per dire, proprio dicevano “puraz l’è andè zo ad testa”. Una volta in piazza incontrai uno con cui avevo lavorato e mi chiese come andava, gli dissi che lavoravo in teatro, e lui pensò che intendessi al disegno da geometra di un teatro: “no”, gli dissi, “attore”. Lui impallidì. Anni dopo mi disse con invidia: “Se anch’io avessi avuto il coraggio di lasciare il lavoro!” ».

Non fu semplice all’inizio però…
«Per quattro anni feci letteralmente la fame. Stavo finendo i soldi per pagare l’affitto e guardavo i barboni per strada pensando che presto mi sarei aggiunto. Ero sicuro però di non tornare sui miei passi, mi dicevo “qualcosa prima o poi succederà!”».

E infatti poi successe, con Albertazzi.
«Anche quella volta chiamarono un mio amico, che non poteva. Era un piccolo ruolo, che i veri attori snobbavano perché aveva appena due battute, una all’inizio dello spettacolo e una alla fine. A me però andava benissimo, perché pagavano ed ero disperato. Così mi presentai da Albertazzi che mi guardò e disse “hai la faccia giusta”. Iniziammo le prove e alla fine decise di darmi un ruolo vero, con parecchie scene».

Parliamo di cinema, è vero che hai un record, sei stato nello stesso anno al festival di Venezia con quattro film contemporaneamente?
«Sì, ma la cosa non era prevista dagli organizzatori, che mi chiesero per quale dei quattro volessi essere ospitato ufficialmente, così ne scelsi uno e gli altri registi ci rimasero male».

Ti faccio dei nomi di personaggi con cui hai lavorato, dimmi la prima cosa che ti viene in mente: Roberto Benigni.
«Simpaticissimo, esuberante, è molto “Benigni” insomma. Lui mi voleva per Il mostro, io ero molto felice, ma poi la sua telefonata non arrivò e ci rimasi malissimo. Accadde però che mentre lui aveva iniziato le riprese, io ero in uno studio lì accanto a girare un film con Marco Tullio Giordana. In una pausa passai da lì e ci incontrammo. Benigni mi disse che era dispiaciuto, ma che quel ruolo per cui inizialmente mi aveva pensato era ambientato in Sicilia, e quindi l’attore non poteva essere romagnolo. Io gli risposi: “Ma ci sono tanti romagnoli che si innamorano di una siciliana e vanno a vivere in Sicilia!”. Lui si mise a ridere e “beh, hai ragione”. E mi prese».

Eri molto insistente, ti ha portato fortuna.
«Il “no” ce l’hai già in conto, tanto vale provare a vedere se può diventare un “sì”. Non hai niente da perdere a provare».

Se dico Checco Zalone?
«Un grande comico, ha ereditato la tradizione della commedia italiana che si prende gioco della società, come Alberto Sordi. Mi chiamò per un film (Cado dalle nubi, ndr) che non sapevo nemmeno chi fosse. Incassò tantissimo ma si fece fregare perché aveva fatto un contratto poco vantaggioso da esordiente, e così per i primi due film, entrambi campioni di incassi, guadagnò pochissimo. Gli ricordai che Benigni mi aveva voluto per due suoi film e con quello dopo aveva vinto l’Oscar, e allora anche Zalone mi volle per due pellicole, ora sta aspettando il suo Oscar…».

Se invece ti dico Raffello Baldini?
«Avevo iniziato a leggere le sue poesie alle cene con gli amici, pian piano vidi che piacevano molto, e allora iniziai a mettere su dei recital con le sue poesie, a cui venivano tantissime persone. Così mi feci coraggio e andai a Milano a incontrarlo per chiedergli di scrivere un testo teatrale. Non ci conoscevamo, io mi presentai a casa sua, e lui inizialmente era molto perplesso. Diceva che non aveva mai pensato di scrivere per il teatro e non sapeva da dove iniziare. Gli dissi, allora traduci in dialetto Ella di Herbert Achternbusch, ambientato in bassa Baviera. Lui lo lesse e mi disse “non si può fare, non può succedere nella bassa Romagna”. Allora si convinse a scrivere un testo, Zitti tutti!, alla fine ne fece quattro e nacque una grande amicizia».

Hai fatto molti film internazionali
«Nei film americani si vede bene quante montagne di soldi hanno quelle produzioni. È molto stressante perché sai che se sbagli qualcosa, e una scena è da rifare, significa mezz’ora di lavoro in più che sono novanta mila dollari. Un errore costa novantamila dollari, per questo io arrivavo sempre preparatissimo, pur non sapendo l’inglese, se non quello delle mie battute. Quando girammo negli studios di Londra King Arthur invece avevamo quattro giorni per fare due scene. Il primo giorno iniziammo dopo molte prove a girare la prima; finita la scena non arrivò lo stop, e allora io proseguii improvvisando la seconda. Il regista Antoine Fuqua era entusiasta e tenne il primo ciak. Così rimasi tre giorni a Londra in vacanza».

Cosa mi dici di Anthony Hopkins?
«Quando giravamo Hannibal presero un aereo solo per noi, che dall’Italia portava gli attori e la troupe in America. Io ero seduto proprio accanto a Anthony Hopkins. Parlavo un inglese farfugliato. Mi appisolai e lui mi svegliò con una gomitata, negli schermi dell’aereo c’era la mia scena de Il talento di Mr Ripley con Matt Damon, e lui mi disse “Look! Wow!”. Che culo! Pensai, tra tutti i film che poteva vedere proprio quello. Così mi prese in simpatia. Quando atterrammo, visto che gli avevo detto che non ero mai stato negli Usa, mi disse “Welcome to the United States of America” e mi abbracciò. Quando presentammo il film a Roma io stavo lavorando alla trasmissione Rai di Adriano Celentano, che mi chiese di mediare con Hopkins per invitarlo al suo programma. Celentano scrisse una lettera e mi chiese di consegnargliela. Così a pranzo gliela diedi, spiegandogli che era una trasmissione seguita da venti milioni di spettatori. Hopkins lesse la lettera, la appallottolò e la gettò a terra, senza dire una parola. Quando Celentano mi chiese “allora che ha detto?”, mi inventai che aveva già il volo di ritorno e che ringraziava moltissimo…».

Oggi ti dedichi invece agli studenti della Tam, com’è stare dall’altra parte?
«Molto divertente! Danno soddisfazione».

Come ti approcci con loro?
«Ho un mio modo. Smonto tutto quello che gli hanno insegnato gli altri. La prima cosa che dico è che non si può “insegnare” a recitare, come si può insegnare a suonare il violino. Non c’è una tecnica prestabilita, come vogliono far credere insegnanti scadenti. Non c’è un modello da raggiungere, si lavora per essere credibili, e ognuno lo è a modo suo. C’era una giovane attrice che si presentò per il ruolo di Nina ne Il gabbiano di Cechov. Fece un monologo tutta provata. Il regista le disse “ora so molte cose su di lei, ma non so nulla di Nina”. L’attore deve riuscire a togliersi di mezzo e lasciare spazio al personaggio».

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