lunedì
23 Giugno 2025
Intervista

«Con i social ora il giornalismo rischia l’autocensura per non offendere i follower»

Francesco Oggiano è un freelance che segue il progetto Will Media, uno spazio di divulgazione nato nel 2020 su Instagram, e ha scritto un libro sul modo in cui le reti hanno cambiato il modo di informarci. Il reporter sarà a Faenza il 2 marzo in un incontro pubblico al cinema Europa

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327104997 1145069099529411 1367081445371296313 NNel rapporto un po’ conflittuale tra social network e giornalismo, dove ognuna delle due parti crede di essere a credito nei confronti dell’altra, c’è una realtà che alla nascita nel gennaio 2020 è stata una vera novità. Will Media è uno spazio di divulgazione che vive su Instagram e oggi conta un team di trenta persone. Tra loro, sin dal principio, c’è Francesco Oggiano. Il 38enne di origini pugliesi ha scritto il libro Sociability, sul modo in cui i social stanno cambiando il nostro modo di informarci e fare attivismo, e sarà a Faenza il 2 marzo, alle 20.30 al cinema Europa nell’ambito del festival Noam, con uno speech dal titolo “Dagli Stati Uniti all’Europa: la rivoluzione dei social”. Alla vigilia della serata abbiamo rivolto qualche domanda a Oggiano.

La nuova frontiera del giornalismo sugli spazi digitali sembra il podcast. È un prodotto che potrà garantire nuove entrate?
«È un mezzo fantastico per coinvolgere il pubblico. Tra 2019 e 2020 in Italia abbiamo visto grandi investimenti nel campo. L’effetto novità ha una fase iniziale di grande entusiasmo e tante sperimentazioni, alcune non eccezionali. Penso che ora arriverà un bagno di realtà e nel 2023-2024 assisteremo a una normalizzazione dove sopravviveranno solo i prodotti più validi».

Come si monetizza un podcast?
«Ci sono brand che pagano per avere un loro canale in cui distribuire contenuti in questo formato. Per quelli più giornalistici invece non ci vedo nulla di male se una puntata prevede finestre per spot di 30 secondi».

Fare giornalismo appoggiandosi solo su piattaforme social, per una testata o per un freelance, in che modo può incidere sulla libertà del lavoro?
«Montanelli diceva che l’unico suo padrone è il lettore. Ma è pur sempre un padrone. Questo ragionamento si applica bene ai social: può venire il timore di dire qualcosa di spiacevole per i propri follower che ti abbandonano o peggio scatenano una shitstorm con un danno di reputazione. Il giornalismo adesso può rischiare una censura dal basso. Io stesso mi sono trovato a farmi domande di questo tipo al momento di produrre i contenuti, mi sono chiesto cosa avrei potuto rischiare. E il fatto stesso che me lo chiedessi mi ha fatto capire che era un tema interessante e ci ho fatto un capitolo del mio libro».

326227257 855105212271012 8198040051229506442 NI social costringono le testate a dare più spazio all’intrattenimento a discapito dell’informazione?
«Non c’è nulla di male nell’intrattenimento, a patto che venga fatto con metodo corretto. Invece negli anni Dieci ci siamo illusi che internet ci avrebbe fatto fare tanti soldi con la pubblicità e ci siamo buttati sul clickbaiting. Rinunciare al titolo a effetto e applicare un metodo che comprenda la complessità dei temi è la linea da seguire anche per l’intrattenimento».

Dall’America arrivano riflessioni sulla fine dell’era dei social media e l’ingresso nell’era dei “recommendation media”.
«Stiamo assistendo a quella che si può chiamare tiktokizzazione di internet: Tiktok dice chiaramente che non vuole essere chiamato social media ma piattaforma di intrattenimento. E in effetti non è un social: i contenuti non vengono proposti in base a relazioni social, ma sono segnalati in base all’algoritmo che osserva le abitudini del tuo consumo e ti propone altro in linea. È un approccio che ha fatto breccia e lo stanno introducendo anche altre piattaforme, ad esempio Instagram lo fa sempre di più».

Se questa diventa la struttura imperante, allora la caccia a conquistare più follower possibile avrà sempre meno senso?
«Su Tiktok è già così: la performance di un video non dipende dal numero di follower che ha il creator. E in questo è più meritocratico: su Instagram io ho 58mila follower e un mio video non potrà mai avere le stesse visualizzazioni di uno della Ferragni che ne ha 29 milioni. Su Tiktok invece siamo tutti alla pari: puoi diventare virale partendo da zero. Il risvolto è che è molto più difficile costruire una community perché è vero che si può essere virali partendo da zero ma è altrettanto vero che un video può fare zero visualizzazioni pur avendo molti follower».

E siamo al concetto di community. È la parola più smart per definire quel citizen journalism di cui tanti si erano innamorati anni fa?
«Io intendo la community come un gruppo di persone che si identifica in certi valori. Va costruita anche con piccoli accorgimenti: banalmente rispondendo un po’ ai commenti, ai messaggi, dialogando con i follower. Oggi qualcosa sta cambiando. Quello che penso funzioni maggiormente nel rapporto con la community è riuscire a dare informazioni utili: spesso il lettore ha bisogno di risolvere qualche problema».

331499021 201333592476447 4864857148002460990 NNella ricerca di nuovi canali di entrate economiche, il branded journalism può essere una strada che funziona? Quanto siamo distanti da quelle che una volta, nel gergo delle redazioni, si chiamavano “marchette”?
«Ogni azienda di qualunque settore deve comunicare e deve farlo in maniera sempre più raffinata. La “marchetta” classica non credo che porti grande utilità. Una cosa diversa sono i contenuti prodotti con il supporto di un marchio che se non viene nominato è anche meglio. Esempio: Patagonia finanzia la realizzazione di documentari stupendi».

Ma è applicabile anche in senso inverso? Si potrà cercare sponsor per prodotti giornalistici?
«Provo a immaginare un esempio. Mettiamo che un giornalista freelance abbia l’idea di fare una serie di storie sugli sportivi attivisti. Può proporle alla Gazzetta dello Sport e farsi pagare. Ma può anche proporle a un’azienda che magari produce palloni e il marchio nemmeno lo nomina. È chiaro che nel breve periodo il produttore di palloni non avrà un ritorno economico immediato, ma assocerà il suo nome a certe informazioni e certi valori che nel lungo periodo saranno utili all’immagine».

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