Luca Sofri e il giornalismo de Il Post: «Ci piace fare i dj dell’informazione»

Il direttore spiega una delle caratteristiche del quotidiano online: aggregare contenuti prodotti anche da altri media per raccontare storie, «cerchiamo la qualità, non inseguiamo lo scoop». Dal 22 al 24 settembre a Faenza la quinta edizione di Talk: dibattiti e incontri sull’attualità con ospiti, promossi da Il Post. Tra gli ospiti: Roberto Saviano, Cecilia Sala, Neri Marcorè, Vera Gheno

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Luca Sofri, direttore de Il Post

La parola inglese scoop è forse il termine del gergo giornalistico più usato fuori dalle redazioni. Dalla Treccani: “notizia sensazionale che un giornalista riesce ad avere e un giornale a pubblicare in esclusiva precedendo la concorrenza”. Ma c’è anche un giornalismo che non vive inseguendo scoop. Ad esempio è così a Il Post, quotidiano online fondato nel 2010: «Non è snobismo – dice Luca Sofri, direttore e fondatore nel 2010 –. Ci interessa di più la qualità delle cose e ci piace “fare i dj dell’informazione”, come dico ogni tanto: aggregare e raccontare contenuti, poco importa chi abbia scoperto le storie».

Questo modo di fare giornalismo sarà sullo sfondo anche di “Talk”, la tre giorni organizzata da Il Post dal 22 al 24 settembre a Faenza con diversi ospiti per dibattiti e incontri (qui il programma completo che comincia alle 16.30 del 22 settembre). Con Sofri, alla vigilia, abbiamo parlato di un po’ di cose (qualche giorno fa avevamo intervistato anche Stefano Nazzi, autore del podcast Indagini).

Luca Sofri 2Direttore, quinta volta di Talk a Faenza. Che significato ha farlo dopo l’alluvione di maggio?
«In questi casi si cerca di far tornare tutto normale: negli ultimi quattro anni a settembre siamo stati a Faenza e volevamo far sapere che non ce ne andiamo. Prima ci siamo assicurati che non disturbassimo: non volevamo creare nessuna complicazione. E ovviamente abbiamo grande rispetto per alcuni degli sponsor che ci hanno detto di avere altre priorità».

Nei giorni scorsi ha inviato una mail agli abbonati per spiegare quante sono le difficoltà dietro l’organizzazione dell’evento. La domanda è brutale: chi ve lo fa fare?
«È un questione di equilibrio da trovare. Gli eventi pubblici per noi sono un investimento per consolidare il rapporto con gli abbonati, con i lettori e con quelli che non ci conoscono ma possiamo raggiungere attraverso queste iniziative. Dal punto di vista editoriale lo consideriamo un pezzo del nostro lavoro di informazione: andiamo a raccontare e spiegare cose, insieme a ospiti che consideriamo interessanti. Ed è piacevole incontrare chi ci sostiene».

Luca Sofri 3L’attenzione alla sostenibilità di ogni iniziativa è da sempre una questione cruciale per Il Post. Gli eventi pubblici come si collocano in questo discorso?
«Se li guardiamo dal punto di vista strettamente economico costano sicuramente più di quello che raccogliamo da sponsor e partnership. Ma è difficile misurare il bilancio effettivo perché sono un investimento con un ritorno di consolidamento nel rapporto con i nostri lettori».

Oggi è più importante fare nuovi abbonati o conservare quelli che già avete?
«È un dibattito aperto perché in tutto il mondo assistiamo a una situazione simile: dopo una grande crescita di accesso degli abbonati durante la pandemia e subito dopo, adesso c’è l’impressione che si sia un po’ saturato un potenziale immediato. Oggi tutti lavorano soprattutto alla conservazione degli abbonati».

Qual è l’identikit dell’abbonato a Il Post?
«Mediamente molto più giovane rispetto alle altre testate, anche se questo dato riguarda più i lettori che gli abbonati perché serve una disponibilità di soldi (abbonamento annuale a 80 euro, ndr) ed è soprattutto nel centro e nord Italia, ma questa è una cosa di cui siamo colpevoli noi che abbiamo la redazione a Milano e a volte ci manca un punto di vista più ampio».

E invece com’è l’identikit del giornalista che cerca Il Post?
«All’inizio cercavamo figure duttili e capaci di muoversi in terreni diversi. Negli ultimi tempi siamo cresciuti e abbiamo cominciato ad avere persone con competenze più specifiche su alcune cose, non solo giornalistiche. In generale però il giornalista di oggi me lo immagino capace di essere versatile».

Avete chiuso il bilancio 2022 con un utile di 1,7 milioni di euro, in un settore dove le crisi e le difficoltà sono palesi. E il 70 percento delle entrate sono abbonati che pagano per qualcosa che potrebbero leggere anche gratis. Come si spiega questo risultato?
«Prima di tutto è giusto dire che fanno numeri interessanti in termini di abbonamenti anche molti altri giornali che hanno comunità interessate. Nel nostro caso hanno funzionato delle cose che non sono particolari strategie di marketing: dalla nascita abbiamo investito su accuratezza, chiarezza, affidabilità e a un certo punto, in particolare con la pandemia, è cresciuto il valore di queste qualità nella percezione delle persone. Ma non mi sentirete mai dire che la qualità paga sempre: paga dentro certe scale, se promossa bene e comunicata bene. Ecco, forse la carenza di qualità nell’informazione italiana ci ha aiutato».

Il modello Post sarebbe replicabile su scala più piccola di quella nazionale?
«In teoria sì. Ma in questi tempi globalizzati credo che il problema sia costruire il coinvolgimento di una comunità locale grande abbastanza da rendere sostenibile il progetto. Ho l’impressione che la fidelizzazione e il rapporto di complicità su base locale tra un giornale e una comunità sia più difficile perché ora le persone sono dentro a una bolla molto più estesa».

I podcast sono la strada da percorrere alla ricerca di nuove entrate?
«Per ora ci sono investimenti e attenzioni superiori al ritorno che riescono a generare. Ma è anche giusto che sia così in questa fase. Non si è ancora trovato, e potrebbe non trovarsi mai, un meccanismo di monetizzazione valido e solido».

Nella parte di produzione di informazione in cui il Post cerca di spiegare bene le cose, c’è anche un lavoro di rassegna di quanto riportato da altre testate. Senza altri giornali, Il Post avrebbe una fetta di lavoro in meno?
«Attingere alle notizie e a cosa dicono altri giornali si è sempre fatto. A noi interessa molto anche raccontare cosa c’è sugli altri mezzi di informazione. Ad esempio Il Corriere della Sera ha sottolineato di recente che un suo scoop su Pio XII è stato ripreso da molti altri giornali nel mondo e non se ne lamentava certo».

Se un lettore avesse Il Post come unica voce nella sua dieta mediatica, sarebbe un lettore sufficientemente informato? Avete l’ambizione di dare quel tipo di informazione?
«Non è quello che abbiamo in mente. Nessuno oggi può dare un’informazione completa, qualunque cosa si intenda per completa. L’offerta di informazione di qualità da tutti i posti del mondo è talmente ricca che non si può immaginare di essere gli unici. Non direi mai a qualcuno leggi solo Il Post».

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