Il professore: «Hamas è terrorismo, Israele è l’unica democrazia in quell’area»

Michele Marchi coordina il corso di laurea “Storia, società e culture del Mediterraneo” a Ravenna: «Duemila anni fa emergevano i segnali delle problematiche di cui dibattiamo oggi». Dalla guerra rischi per i prezzi dell’energia

Foto dalla pagina Facebook della ong Educaid di Rimini attiva in PalestinaLe azioni di Hamas sono terrorismo per spingere Israele a sovra-reagire e ritrovarsi isolato, i palestinesi lasciati senza acqua da Israele sono prima di tutto ostaggi di Hamas, mancano potenze credibili capaci di governare il mondo. Sono questi, in estrema sintesi, i paletti utili per inquadrare i tragici fatti della nuova guerra tra Hamas e Israele secondo la lettura del professor Michele Marchi, coordinatore del corso di laurea triennale in “Storia, società e culture del Mediterraneo” avviato dall’Università di Bologna nel 2020 al dipartimento di Beni culturali di Ravenna (lo scorso luglio le prime lauree).

Professore, la questione palestinese in che termini compare nel corso di laurea?

«Rispetto agli eventi contemporanei indaghiamo le radici di medio e lungo periodo. Rispetto all’area dell’odierno drammatico conflitto occorre ricordare tutto ciò che accadde ben prima della nascita di Israele nel 1948: duemila anni fa c’erano movimenti di popolazioni e già emergevano i primi segnali delle problematiche di cui dibattiamo oggi. E se guardiamo alla fine della Prima guerra mondiale vediamo la dissoluzione dell’impero Ottomano di cui la Palestina faceva parte e la suddivisione del territorio tra Francia e Inghilterra con quest’ultima che conserva il mandato sulla Palestina fino al termine del Secondo conflitto mondiale, quando si tira indietro e cede il passo».

Il corso è incentrato sul Mediterraneo che appare uno scenario in primo piano a livello mondiale. Sembra così a noi che ne facciamo parte o lo è davvero?

«I fatti di oggi arrivano a 50 anni esatti dalla guerra dello Yom Kippur, con Egitto e Siria che attaccarono Israele a sorpresa innescando poi la nota crisi petrolifera. Da allora il Mediterraneo non è mai più uscito dai radar degli eventi storici con importanza mondiale. Si possono citare, ad esempio, la rivoluzione iraniana del 1979, ma anche le tragiche guerre nella ex Jugoslavia negli anni ’90, le due guerre del Golfo e le recenti primavere arabe».

Ci sono differenze significative nello scenario di oggi rispetto al passato?

«Mi pare che ora ci sia un grande e chiaro esempio della mancanza di un governo del mondo, l’assenza di leadership globali. Nel 1973 la guerra del Kippur finì anche se non esclusivamente perché le due potenze dominanti della Guerra fredda decisero che non poteva uscire dalla dimensione regionale in cui era scoppiata. Oggi gli Stati Uniti vivono una crisi di politica interna impressionante e la Cina si limita a guardare e trarre benefici indiretti dallo stato di anarchia globale. L’India è una nuova potenza economica ma non ha tradizione militare e diplomatica e politicamente non è rilevante. In questo scenario trovano spazio di inserimento soggetti come l’Iran che sta dietro a Hamas, la Turchia che al solito gioca su più tavoli e il Qatar che sostiene i Fratelli Musulmani».

Foto dalla pagina Facebook della ong Educaid di Rimini attiva in PalestinaLo studio della storia passa anche dal linguaggio con cui si definiscono le cose. Il dibattito è anche giornalistico con testate come Bbc e Il Post che scelgono di non usare il termine “terrorista” per Hamas. Cosa ne pensa?

«Hamas è a tutti gli effetti un’organizzazione terroristica. Però dobbiamo anche dire che nella striscia di Gaza tende a surrogare ciò che più assomiglia ad una entità statutaria, perlomeno in termini di gestione dell’ordine pubblico e di amministrazione di un rudimentale sistema di welfare. Ma se anche il movimento dovesse, in caso di elezioni nell’Anp, ottenere la maggioranza, non potremmo dimenticare di come usa la violenza per l’esercizio del potere».

E qual è la definizione con cui inquadrare l’azione di Israele?

«Rigetto nella maniera più assoluta l’equazione che si stiano confrontando due tipi di terrorismi: questa odiosa parificazione è fuorviante e pericolosa. È incontestabile che Israele è l’unica vera liberaldemocrazia dell’area, e possiamo dirlo chiamando a supporto la scienza politica come la dottrina giuridica e costituzionale. Un discorso diverso invece è ragionare sulla possibile “sovra-reazione” nel momento in cui viene messa in discussione la sua sopravvivenza. Ha ragione l’Onu nel dire che tagliare energia elettrica e acqua nella striscia di Gaza causerà altre morti tra civili innocenti, ma quei civili sono innanzitutto ostaggi di quel movimento terroristico che li usa come scudi mentre si nasconde nei bunker e che risponde al nome di Hamas».

In Europa, a partire dell’Ue, c’è stato un rapido schierarsi con Israele. È una mossa efficace in un mondo così globalizzato dove i simpatizzanti di Hamas possono essere ovunque?

«Dopo il 7 ottobre la presidente della Commissione europea Ursula von der Layen ha avuto parole nette di sostegno a Israele, criticate in particolare dal presidente del Consiglio europeo Charles Michel perché considerate fuori dalle prerogative di politica estera della Commissione. Le dichiarazioni dei principali governi europei sono un modo per mettere in chiaro che da un lato c’è uno Stato sovrano e dall’altra parte c’è un’organizzazione terroristica. La vedo un po’ come la reazione del “siamo tutti americani” nel 2001 e non mi pare così sbagliato. Contestualmente poi le principali diplomazie europee, penso soprattutto a Parigi e Londra, stanno operando sottotraccia sia con Tel Aviv, sia con le diplomazie arabe. Molto di ciò che non appare costituisce la parte più rilevante dell’evoluzione».

Un professore ucciso in Francia, due svedesi a Bruxelles: dobbiamo temere per la sicurezza in Europa?

«Dalle riflessioni degli esperti sembra che finora si possa parlare di gesti isolati di qualcuno che vuole emulare e coglie l’occasione. La guardia va mantenuta alta, ma occorre altresì evitare l’eccessiva drammatizzazione».

Per la persona comune nel Vecchio continente che vede le scene di guerra in tv la prima reazione di pancia è chiedersi che effetti avrà nella sua quotidianità, se ne avrà…

«Oltre al rischio già citato di possibili gesti di emulazione terroristica, il secondo rischio è di natura economica: una destabilizzazione dell’area mediorientale con eventuali reazioni da parte dei Paesi arabi potrebbe creare squilibri importanti sui prezzi delle principali materie prime energetiche».

Una ricerca lucida sulla storia è fatta anche di ragionamenti che possono apparire cinici ai non addetti ai lavori. Come valuta le parole dell’ambasciatrice Elena Basile per cui “gli americani sarebbero stati più propensi a una trattativa se Hamas avesse avuto ostaggi americani”?

«Mi pare si possa definire una “idiozia mediatica”. Anche a voler essere cinici, se c’è un ostaggio che non conviene prendere è un americano perché si sa che gli Usa difficilmente trattano e mai sono disposti a pagare per liberare propri connazionali nelle mani di organizzazioni terroristiche».

Cosa succederà ora?

«Impossibile fare previsioni sensate. Si può dire che Israele ha bisogno di dare risposte alla propria opinione pubblica; dunque, continuerà la dura azione militare già avviata, ma mi auguro controllata e per quanto possibile non devastante per la popolazione civile di Gaza. Una over-reaction (reazione eccessiva, ndr) avrebbe conseguenze politiche globali deleterie prima di tutto per Israele stesso. Sarebbe molto più efficace un’azione non eccessiva, dal tentativo di destabilizzare il regime iraniano, tentando di infiltrare i suoi apparati di sicurezza in una fase mai così incerta per il regime teocratico di Teheran».

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