L’ex ambasciatore in Giordania: «È finita la carriera politica di Netanyahu»

Patrizio Fondi insegna all’università a Ravenna dopo importanti incarichi in Medio Oriente, per l’Italia e per l’Unione europea: «Il premier ha consentito l’arrivo di soldi dal Qatar a Gaza pensando che questo bastasse per tenere sotto controllo la situazione». Sui metodi di Hamas: «Copia lo Stato islamico per avere più efficacia ma non ha intenti di jihad contro l’Occidente»

Foto dalla pagina Facebook della ong Educaid di Rimini attiva in PalestinaIl Medio Oriente è stato a lungo la sede di lavoro della carriera diplomatica di Patrizio Fondi. Dal 2013 per due anni ambasciatore italiano a Amman, capitale della Giordania che confina con Israele e ha una popolazione composta al 60 percento da palestinesi. Dal 2015 al 2019 negli Emirati Arabi come ambasciatore per l’Unione europea. Oggi Fondi insegna “Storia della diplomazia culturale nel ‘900” a Ravenna al corso di laurea in “Storia, società e culture del Mediterraneo” nel dipartimento di Beni culturali dell’Università di Bologna.

Professor Fondi, dal periodo in cui è stato ambasciatore in Giordania che ricordi ha della questione Israele-Palestina? 

«Ho assistito all’ultimo periodo in cui ci sono stati dei tentativi di negoziato tra le due parti. Il segretario di Stato americano, John Kerry, fece una dozzina di viaggi nell’area per cercare di riannodare il dialogo ma non ci riuscì».

Qual era lo sguardo della Giordania a queste vicende? 

«C’era grande preoccupazione perché si delineava la fine dell’ipotesi dei “Due popoli due Stati” e questo, in ottica giordana, significa due contraccolpi. Il primo: un ulteriore travaso di palestinesi in Giordania dove già rappresentano il 60 per cento circa della popolazione e hanno in mano buona parte dell’economia. Il secondo: finire per considerare la Giordania come lo Stato palestinese oppure crearne uno minuscolo confederato con la Giordania e quindi di fatto una finzione».

Per molti è inspiegabile che il dotatissimo Israele si sia fatto sorprendere da una forza meno organizzata come Hamas. Che spiegazione può esserci? 

«La prima considerazione è che negli ultimi mesi le proteste clamorose e generalizzate di tutte le categorie, inclusi i servizi di sicurezza, contro la riforma giudiziaria caldeggiata dal governo hanno distratto tutte le istituzioni dai loro compiti. La ragione determinante, a mio avviso, è stata l’erronea convinzione di Netanyahu che Hamas fosse in una situazione così comoda da non avere motivi per creargli seri problemi».

Foto dalla pagina Facebook della ong Educaid di Rimini attiva in PalestinaIl premier di Israele ha sottovalutato Hamas? 

«Mirando alla creazione di un unico Stato binazionale a egemonia ebraica inglobante tutti i territori, Netanyahu ha sostanzialmente consentito ad  Hamas, contraria al riconoscimento di Israele a differenza dell’Autorità nazionale palestinese di Abbas, di sopravvivere e consolidarsi, al fine di avere il pretesto per dire che la dirigenza dei suoi avversari era divisa sugli obiettivi da raggiungere e dunque indisponibile per un vero negoziato sulla soluzione dei due Stati a lui invisa. Il premier si è illuso di poter gestire indefinitamente Hamas, anche consentendo l’arrivo nella striscia di Gaza di fondi provenienti dal Qatar, nella convinzione che tale gruppo si sarebbe accontentato di governare la striscia senza agitarsi troppo».

Hamas è da considerare la nuova forma del sedicente Stato islamico? 

«Hamas è un movimento terroristico di resistenza che vuole liberare un territorio, è paragonabile all’Ira in Irlanda o l’Eta nei Paesi baschi in Spagna. Viceversa non ha gli intenti di jihad globale contro tutto l’Occidente tipici dell’Isil. Ma la degradazione della questione palestinese ha portato all’assorbimento dei metodi dell’Isil da parte di Hamas per un effetto di imitazione a fini di maggiore efficacia. Hamas ha usato metodi efferati mai usati prima per spingere Israele a reagire in maniera eccessiva e a trovarsi isolato a livello internazionale».

L’escalation aumenterà ancora con la reazione di Israele? 

«Israele è nel mezzo di un dilemma. Da un lato ha la necessità di riaffermare la propria forza per intimorire i nemici e rassicurare i propri cittadini. Dall’altro capisce che con una reazione sproporzionata rischia appunto l’isolamento internazionale, anche mettendo in pericolo il processo di normalizzazione in corso con vari Paesi arabi, e l’allargamento del conflitto al gruppo Hezbollah presente in Libano se non addirittura all’Iran con l’apertura di due fronti in contemporanea».

Chi può aiutare i negoziati? 

«L’Egitto da sempre ha una tradizione di mediazione. E poi ovviamente soprattutto gli Stati Uniti che possono influenzare Israele facendo leva sui miliardi di dollari che forniscono per la sua difesa. Anche il Qatar può giocare un ruolo importante, essendo un finanziatore di Gaza, soprattutto nella delicatissima questione degli ostaggi catturati da Hamas. La questione cruciale per il tavolo di pace sarà trovare un interlocutore credibile sul lato palestinese. Non potrà essere Hamas, per ovvie ragioni».

Chi potrà avere quel ruolo? 

«Penso a una figura come Marwan Barghuthi, prigioniero politico in carcere in Israele da oltre vent’anni. Potrebbe ridare fiato all’Autorità palestinese e limitare lo spazio di Hamas fra la popolazione perché ha la credibilità della coerenza. Al tempo stesso può essere accettabile per Israele perché non si è macchiato di massacri particolarmente efferati».

La Giordania oggi è da considerare un possibile mediatore fra le parti? 

«Può contribuire alla distensione dell’atmosfera, ma ha dei limiti oggettivi. L’impotenza a contrastare i frequenti tentativi di violazione, da parte di esponenti religiosi israeliani, dello status quo nei luoghi santi di Gerusalemme, in base al quale solo i musulmani possono pregare, a differenza degli ebrei che devono limitarsi a visitarli, ha indebolito il re giordano che è tradizionalmente il custode  di tali luoghi, come riconosciuto formalmente anche dall’Autorità nazionale palestinese. L’altro limite dei giordani è la debolezza dell’economia che si regge su aiuti esterni americani, europei e giapponesi».

Non ha citato l’Unione europea tra i negoziatori… 

«Dobbiamo prendere atto che nella situazione attuale l’Ue non è in grado di fare politica estera in maniera incisiva, limitandosi in sostanza ad  attività di cooperazione allo sviluppo e aiuti umanitari. L’Europa purtroppo non ha una sintesi comune tra le posizioni dei vari Stati membri e manca di personalità carismatiche che possano rappresentarla efficacemente».

Sul lato israeliano potrà essere Netanyahu la figura di dialogo? 

«Credo che siamo di fronte alla fine della carriera politica di Netanyahu, già vacillante per proteste interne. Il meccanismo politico del suo progetto gli è scoppiato violentemente in mano il 7 ottobre ed è pertanto prevedibile che il popolo israeliano non gli confermerà la fiducia in occasione delle elezioni che verosimilmente avranno luogo dopo la fine del conflitto».

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