sabato
21 Giugno 2025
moda

La stilista che ha portato un po’ di Parigi a Ravenna: «Creo abiti con l’anima»

Cristina Rocca si racconta, dalla scena francese degli anni ottanta fino alle sfilate al Museo Nazionale. «Tutti i miei vestiti hanno un legame speciale con la città: continuo a valorizzare la filiera corta e l’aspetto artigianale»

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Cristina Rocca Con Modella

La nota stilista ravennate Cristina Rocca ha iniziato la sua carriera nel mondo della moda negli anni ’80, muovendo i primi passi nella vivace scena parigina dell’epoca, dove ai grandi nomi della sartoria francese stavano iniziando ad affiancarsi le prime firme italiane di spessore, come Armani o Versace. Il forte legame con la città natia la riporta a Ravenna, dove all’interno del suo atelier inizia a esplorare linee, tessuti e fantasie, lontana dai diktat imposti dall’alta moda.
Il patrimonio storico, artistico e musivo di Ravenna sono da sempre l’elemento che più caratterizza la produzione della stilista, nota anche per le sfilate ambientate nei luoghi culturali della città, tra chiese, vie storiche e musei.
L’abbiamo incontrata.

Una carriera iniziata negli anni ’80, tra le strade di Ravenna e le “rue” parigine: ci racconta qualcosa di quel periodo?
«Negli anni ’80 frequentavo Giurisprudenza a Bologna, provando però un’attrazione irresistibile per il mondo della moda. Iniziai a frequentare botteghe e atelier, cercando di apprendere le prime tecniche sartoriali: riproducevamo i capi dell’alta moda francese, utilizzandone i modelli e cucendo gli abiti interamente a mano. Il passo successivo fu quello di iniziare a frequentare la scena parigina, in compagnia di una cara amica divenuta in seguito una famosa modella. Se ripenso a quei giorni, ricordo le timide aperture dei piccoli atelier in Rue de Bellechasse, nomi come Azzedine Alaïa, Kenzo e molti altri giovani stilisti destinati a scrivere la storia del fashion. Decisi di aprire anche io il mio atelier, con laboratorio di sartoria, ma lo feci nella mia Ravenna. Per qualche tempo ho avuto come clienti boutique storiche come Draganzuk, a Bologna e Cortina, Moda Motta a Brescia o Vezzoni a Genova. A un certo punto però ho deciso di produrre solo per le mie boutique».

Il legame con Ravenna è stato rimarcato più volte nel corso degli anni, con le celebri sfilate nei luoghi più iconici della città. È un modo di trasformare la moda in performance?
«Questo tipo di evento è nato negli anni ’90, con una sfilata a Santa Maria delle Croci. L’intera collezione si ispirava al patrimonio musivo della città e cercavo un luogo che potesse valorizzare al meglio l’impronta culturale dei modelli. Non l’ho mai pensata come una performance, ma come una sinergia: tutti i miei abiti hanno un legame speciale con la città e cerco di dare maggiore spessore a questa unione attraverso i luoghi ricchi di significato, anche e soprattutto a cielo aperto, come piazza del Popolo o via Argentario o strutture come il museo Tamo, le artificierie Almagià, il teatro Alighieri e palazzo Corradini, arrivando anche a sfilare tra le magiche calli veneziane o per le vie di Roma, rimarcando sempre il legame tra cornice e abito. Lo scorso giugno, ad esempio, ho scelto di sfilare nel pieno centro storico di Ravenna, con alcuni modelli ispirati alla giovane Teodora, con l’intento di dare un’immagine della città gioiosa e accogliente, in contrasto con l’informazione disfattista del post-alluvione diffusa dai media. Quest’anno invece mi sono lasciata ispirare dagli elaborati ricami della bizantina art, una tradizione dell’artigianato ravennate quasi dimenticata se confrontata al mosaico. Ho riportato gli elaborati ricami sul lino e li ho fatti sfilare negli spazi del Museo Nazionale, per restituire a quell’antica arte un piccolo spazio espositivo».

Com’è cambiato il mondo della moda in questi anni di carriera?
«È stato completamente stravolto. Vengo da una scuola in cui il capo nasceva dal cartamodello, mettendo al centro l’eleganza sartoriale e l’artigianato. Il trasferimento massivo delle produzioni tessili in oriente ha tolto linfa creativa al mondo della moda. Allungando la filiera in maniera sconsiderata si perde il controllo sul prodotto e sulla qualità: se prima l’alta moda italiana si riforniva dei pregiati tessuti di Prato, Biella e Vicenza oggi si sposta la produzione in Cina e Corea, per meri fattori economici. A noi è rimasto il know-how, ma senza una struttura artigianale di alto livello il risultato non può essere lo stesso di un tempo. Un altro grosso cambiamento è stato imposto dalla diffusione dell’e-commerce: creare un vestito per la vendita online non è lo stesso che crearlo per una vendita diretta, dove oltre alle linee si valutano tessuto e sensazioni. Oggi poi una nuova minaccia incombe sulla piccola e media sartoria italiana: i grandi brand francesi acquistano in maniera sempre più aggressiva laboratori e griffe, al solo fine di fregiarsi dell’etichetta “made in Italy” per la loro produzione».

Tutto questo comporta un fisiologico calo della qualità?
«Non posso spingermi in un’affermazione tanto forte, ma sicuramente la creatività è la prima a risentirne. La filiera corta garantisce risultati incredibili e io, nel mio piccolo, continuo a servirmene, prediligendo aziende ravennati o vicine alla provincia e valorizzando l’aspetto artigianale del mio lavoro».

Cosa ne pensa invece della cosiddetta fast fashion?
«Un altro fenomeno strettamente legato alla delocalizzazione e alla possibilità di produrre in grandi quantità e a basso costo, a discapito delle condizioni lavorative dei dipendenti. Spero che questo cambi in fretta, ma mi rendo conto che questo tipo di offerta risponde a una domanda del mercato. La fast fashion ha un suo significato, a prescindere dal ceto sociale degli acquirenti, ma personalmente odio lo spreco e “l’usa e getta”. Acquistare un capo in meno, ma di maggior valore, permette di vestire in modo più sostenibile definendo al tempo stesso uno stile unico e personale».

I capi del suo brand sono prodotti in numero limitato?
«Assolutamente. Non siamo amanti delle grandi quantità, anzi, molti capi sono pezzi unici, come nel caso di tutti gli abiti da sposa. Amo il tessuto di qualità e il taglio semplice ma elegante, cerco di realizzare un abito con un’anima creativa che duri nel tempo, con una forte idea di unicità lontana dai diktat dell’alta moda».

Può rivelarci qualche anticipazione sulla prossima collezione?
«Parlando di linee e tessuti, per l’autunno-inverno punteremo sicuramente sul tailleur, un capo importante del guardaroba e declinabile in molte versioni: dall’eleganza del cady al velluto a coste e fresco lana, giocando con giacche corte utilizzabili anche spezzate, magari su abiti o un pantalone a vita alta. Per quanto riguarda le fantasie non posso rivelare troppo, ma tornerà il tema dei ricami».

È ancora possibile emergere nel panorama della moda per un giovane ravennate?
«Credo che a Ravenna manchi una tradizione legata alla produzione sartoriale, sia a livello industriale che artigianale, a differenza delle vicine Faenza e Rimini. Questo probabilmente inibisce i giovani a lanciarsi in questo tipo percorso, anche se credo che le possibilità di successo non mancherebbero: qualche anno fa abbiamo cercato di creare una classe di moda all’istituto geometri “Camillo Morigia”, con l’obiettivo di dare un’opportunità nel settore a giovani creativi, ma il progetto non è partito per mancanza di adesioni. Personalmente, penso che in città ci siano ancora tanti giovani creativi e appassionati, ma immagino che alcune famiglie abbiano ostacolato la scelta per il timore delle prospettive lavorative incerte, quando in realtà si tratta di figure professionali sempre più richieste».

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