martedì
24 Giugno 2025
l'intervista

«L’etica è l’unica risorsa per difenderci dai rischi dell’intelligenza artificiale»

Giovanni Boccia Artieri si occupa di tecnologie generative da trent’anni ed è stato recentemente nominato nel board dell’Agcom sul tema

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Giovanni Boccia Artieri Verticale

Professore di Scienze della Comunicazione, Giovanni Boccia Artieri, ha incentrato il proprio lavoro nello studio dei nuovi media e della loro evoluzione, pubblicando diversi volumi sull’argomento e ricevendo recentemente la nomina dall’Agcom nel board dedicato allo studio dell’intelligenza artificiale: «Quando siamo stati nominati sapevamo di trovarci davanti a un lungo processo – dice il direttore del dipartimento di Scienze della comunicazione all’università di Urbino –, si tratta di un settore ancora da esplorare e regolamentare. La normativa europea prevede una dimensione attuativa regolamentata dagli enti locali, il nostro compito ora è quello di capire come applicare questo strumento al comparto mediatico italiano».

L’esperto sarà il 15 giugno alle 17 a Fusignano, al parco Primieri in via Fratelli Faccani, ospite della festa dell’Arci per un incontro aperto al pubblico sulle implicazioni di queste nuove tecnologie.

Professore, da quanto tempo si occupa di intelligenza artificiale?
«Dalla fine degli anni ’80, quando ancora ero all’università. Mi sono laureato in scienze politiche a Bologna, dedicando ampio spazio all’aspetto sociologico della materia. In quegli anni ho avuto la fortuna di entrare in contatto con docenti della caratura di Achille Ardigò, uno dei padri della sociologia nel nostro Paese, e Lella Mazzoli. Già all’epoca si occupavano dei rapporti tra sociologia e intelligenza artificiale, e tra studi e convegni ho esplorato la materia sempre più a fondo. Si trattava ovviamente di un tipo diverso di intelligenza artificiale, oggi quando parliamo di “Ia” ci riferiamo principalmente a quella più avanzata, di tipo generativo».

L’intelligenza artificiale quindi è un’invenzione tutt’altro che recente, perché se ne parla così tanto oggi?
«Oggi si parla di intelligenza artificiale come se fosse una novità, una rivoluzione, ma i primi studi sull’argomento risalgono alla seconda guerra mondiale: la stessa Macchina di Turing ne è un esempio. Parlando in termini più recenti, alcune funzioni degli smartphone come il riconoscimento facciale, gli assistenti vocali o i ChatBot possono essere altri esempi. Quel che ha segnato un punto di svolta è stato il rilascio da parte di OpenAi di un sistema di intelligenza artificiale di tipo generativo (Chat Gpt, ndr), in maniera pubblica e gratuita. Possiamo dire che si è trattato di un esperimento sociale di massa: se prima l’Ia era parte della vita delle persone in maniera inconscia e relegata agli usi imposti dalle aziende che la inserivano all’interno dei loro dispositivi, oggi si può osservare come la comunità decide di farne uso in totale libertà, sul lavoro o per svago, sfruttando le sue implicazioni più creative».

Quello della creatività è un aspetto divisivo. Perché lasciare alla tecnologia la possibilità di avvalersi di una forma di espressione strettamente umana?
«L’intelligenza artificiale non si sostituisce al talento. Se un utente non sa disegnare, grazie ai prompt può visualizzare ciò che la sua mano non sarebbe stata in grado di fare. Il risultato però sarà senza dubbio mediocre. Per un artista il discorso cambia: in questo caso l’Ia diventa un prezioso strumento nella sua cassetta degli attrezzi, da usare con consapevolezza e intenzione. Come si è passati dalla grafite alla china, e poi alle tempere e agli iPad oggi si può contare su un nuovo mezzo. Possiamo continuare a lamentarci del fatto che l’intelligenza artificiale uccida la creatività, come in passato è successo per altre innovazioni come macchine fotografiche o programmi di foto ritocco, o studiarne le potenzialità per produrre qualcosa di davvero creativo. Se viene utilizzata significa che risponde a un bisogno, in ambito artistico o lavorativo».

Dal punto di vista lavorativo, reputa realistico lo scenario di sostituzione del capitale umano con questo tipo di strumentazioni?
«Tecnicamente sì, come con l’introduzione di qualsiasi nuova tecnologia in ambito industriale. Si creano macchinari in grado di svolgere compiti in maniera più veloce ed efficace rispetto a quanto fatto da un umano, ma al tempo stesso si aprono le strade per nuovi tipi di incarichi, come la progettazione, l’addestramento e la manutenzione di quelle stesse tecnologie. In alcuni ambiti sarà più evidente che in altri: non posso dire che domani avremo bisogno di meno giornalisti o meno comunicatori, ma sicuramente dovranno essere affiancati da figure specifiche come “prompt journalist” o “prompt communicator”».

La specializzazione risulta dunque fondamentale per l’utilizzo delle intelligenze artificiali?
«Assolutamente sì. La chiave sta nell’uso intelligente dell’artificialità della macchina, le competenze sono fondamentali, come in qualsiasi altro ambito. Questi software generano testi, non verità, producono immagini, non arte. A fare la differenza sono l’esperienza e la capacità dell’user. Non è un caso che il primo filmato prodotto interamente da un sistema di intelligenza artificiale sia stato realizzato da un videomaker esperto, non da un programmatore o da un utente esterno».

Come evolveranno questi sistemi nel futuro?
«La vera sfida da qui a dieci anni sarà lavorare sulla contemporaneità e sulle capacità di autoaddestramento di queste tecnologie. È verosimile pensare che si produrranno sistemi verticali, fortemente specializzati e personalizzabili, per venire incontro alle specifiche richieste di professionisti e aziende. Farà inoltre parte di processi quotidiani, in maniera più o meno evidente e con implicazioni non necessariamente positive: se da un lato, ad esempio, sarà facile e normale sostenere una conversazione in italiano con un interlocutore di lingua straniera, ottenendo traduzioni immediate e sempre più raffinate da un semplice auricolare, dall’altro potremmo trovarci davanti a una scorretta manipolazione della comunicazione, delle fonti storiche o della privacy personale, con la produzione veloce e sfaccettata di video deep fake e fake news».

Il confine del buon uso di questi strumenti è quindi puramente etico?
«Sarà necessario proporre una serie di linee guida che evidenziano le potenzialità e i rischi per i media nell’utilizzo delle Ia, esplicitandone il possibile ruolo nella creazione di materiale disinformativo. L’etica è sicuramente un tassello fondamentale: già oggi, in alcuni casi, è difficile distinguere un prodotto creato da un umano da quello realizzato da un sistema generativo, e l’unica risorsa che abbiamo per difenderci dal caos è di tipo etico, esplicitando sempre l’eventuale utilizzo di queste strumentazioni».

Cosa dobbiamo aspettarci dall’incontro di giugno a Fusignano?
«Un discorso pubblico completamente al di fuori dell’hype mediatico. Non si parlerà di intelligenza artificiale come rivoluzione salvifica o tremendo declino, anzi, lo scopo sarà quello di normalizzare la tematica portandola al di fuori degli ambienti di settore. Sarà una chiacchierata con tre giovani che apporteranno le loro inquietudini, speranze e opinioni sull’uso di qualcosa che farà sempre più parte del nostro futuro. Sarebbe bello ad esempio tracciare anche qualche linea guida per l’utilizzo scolastico, invece che fingere che non esista o temerne l’utilizzo a scopi illeciti».

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