«Quando vidi i primi che andavano in fuga mi dissi “Roby, se non ci provi stavolta, non ne vincerai mai una. O la va o la spacca”. Sono partito e andò bene». Sono passati trent’anni ma Roberto Conti ha ancora in mente i pensieri del 19 luglio 1994 quando vinse una tappa al Tour de France. E mica una qualsiasi: 224,5 km con arrivo sull’Alpe d’Huez, una delle salite storiche della corsa francese. Basta dire che è stata traguardo di tappa per 29 volte in 110 edizioni e solo altri 4 italiani hanno vinto lì: Coppi, Bugno, Guerini e Pantani di cui Conti è stato a lungo il fidato gregario.
Il 60enne di Bagnara di Romagna (nato a Faenza), ritiratosi nel 2003, quell’anno era appena passato alla Lampre: «Arrivai al Tour con una buona condizione. Nel sogno di ogni corridore c’è la vittoria almeno una volta in carriera, ma sono quelle cose che non dici mai ad alta voce, te le tieni dentro». Soprattutto se di mestiere sei gregario, valoroso senza dubbio, ma vincere non è quello che ti viene chiesto. «Il giorno dell’Alpe d’Huez ricordo che ero partito molto stanco al mattino, avevo dormito poco e venivamo dalla tappa sul Mont Ventoux. Poi pedalando ho cominciato a sentirmi meglio e ci ho provato, anche rischiando perché ero messo bene in classifica (finirà sesto a Parigi, ndr)».
La cronaca de La Gazzetta dello Sport del giorno dopo riportava che la vittoria di Conti era cominciata con una fuga partita dopo soli 14 km (su 224) in compagnia di altri tredici corridori. Lo scatto decisivo di Conti proprio all’inizio della salita dell’Alpe d’Huez
In 17 anni da professionista – in cui è stato soprattutto al fianco di Pantani alla Mercatone Uno – Conti vanta undici partecipazioni al Tour e diciassette al Giro. «Ora non più, ma ai miei tempi la differenza di organizzazione si vedeva bene. In Francia erano più avanti. Aveva ragione Argentin nel 1990 quando stavamo andando al Tour e mi disse “Andiamo all’università del ciclismo”. Ricordo soprattutto la passione dei tifosi. Un esempio: nel 1992 vincemmo una cronometro a squadre con la Ariostea e tornammo in albergo in bici facendo 7-8 km per sciogliere le gambe: la gente ci applaudiva al nostro passaggio, fu incredibile».
Nel 2019, per festeggiare i 25 anni dall’impresa sull’Alpe d’Huez, Conti e altri quattro amici tornarono in Francia a rifare la stessa salita: «Guardavo il contachilometri e mi chiedevo come fosse possibile la velocità con cui l’avevo fatto nel 1994. Quest’anno niente imprese del genere anche se è il trentesimo anniversario, quest’anno è il Tour che viene a casa nostra. Andrò sulla salita della Gallisterna a vedere il passaggio». L’ex ciclista prevede un avvio del Tour subito frizzante: «La prima tappa Firenze-Rimini è molto impegnativa per essere l’apertura. Io penso che Pogacar attaccherà dal primo giorno per “provare la febbre” a Vingegaard».
Un appassionato di ciclismo come Conti vede le difficoltà del movimento a coinvolgere i giovani: «È uno sport di fatica, ma ci sarebbero nuove leve. Mancano i volontari per mandare avanti le società e le strade sono sempre più pericolose: le auto diventano più grandi e lo spazio per la bici diminuisce». Il faentino racconta un aneddoto recente: «Nel 2020 andai in bici a Imola a vedere i Mondiali di ciclismo. Per strada le auto con targa italiana mi sfioravano, quelle con targa straniera stavano anche dietro di me in attesa di potermi sorpassare solo quando c’era lo spazio per allargarsi e passare a un metro. È proprio diverso il rispetto per gli utenti deboli della strada».
La passione per i pedali è rimasta, Conti esce ancora in sella, ma dal 2004 il suo lavoro è un altro: «Sono un consulente finanziario. Alla fine delle gare io e Gianni Faresin leggevamo Il Sole 24 Ore piuttosto che la Gazzetta dello Sport. A fine carriera ho fatto un corso ed è diventata la mia occupazione». I ricordi del passato, oltre che nella memoria, sono in bacheca. Quanti cimeli conserva un ex ciclista con una lunga carriera? «Molto dipende dalla pazienza di madri e mogli. Io ho conservato i trofei più importanti e una maglia per ogni squadra. Le bici invece no perché se volevi tenerla a fine stagione dovevi pagarla alla squadra e ci volevano anche tre milioni di lire (1.500 euro circa, ndr) e non è che gli stipendi fossero altissimi».