mercoledì
25 Giugno 2025
Intervista

Le arti marziali per salvarsi dal regime talebano: «Lotto per i diritti delle donne»

Mahdia Sharifi, 20 anni: la fuga da Herat e l'ingresso nel programma olimpico per rifugiati. La sua storia anche al Ravenna Festival: «Sono scappata con un aereo senza riuscire a salutare i miei genitori»

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Una vita passata a lottare, dentro e fuori dalla palestra. Nel 2015, quando aveva undici anni, Mahdia Shari scopre la passione per il taekwondo sbirciando un gruppo di donne che si allenavano nella sua Herat, in Afghanistan. Inizia a praticare le arti marziali senza il consenso del padre e a quindici anni ottiene un posto in nazionale. A 17 è costretta ad abbandonare il Paese per scappare dagli orrori del regime talebano. Oggi Sharifi ha 20 anni, vive a Roma e fa parte del programma olimpico per rifugiati di Unhcr Italia.

Alla mancata qualificazione per Parigi 2024 risponde allenandosi più duramente e affiancando alla carriera sportiva gli studi universitari e le attività di volontariato per le associazioni umanitarie: «Vorrei dar voce a tutte le donne afghane dimenticate. Soffrono ogni giorno, private di qualsiasi diritto».

I filmati degli allenamenti di Sharifi fanno parte dello spettacolo Non dirmi che hai paura in scena al teatro Alighieri l’8 luglio: attraverso la storia della velocista somala Samia Yusuf Omar, la regista Laura Ruocco vuole raccontare il dramma dei migranti, l’amore sconfinato per lo sport e il desiderio di emancipazione femminile (ne parliamo qui).

Sharifi, da dove nasce la passione per il taekwondo?
«Dalla curiosità. Avevo undici anni e tra compagne di classe capitava di parlare di sport. Qualcuna aveva già provato, e anche a me sarebbe piaciuto, ma le palestre per donne non erano tante in città. Ne trovai una però, sostenuta dagli americani, che organizzava corsi di taekwondo. Mi fermai ad osservare gli allenamenti e ne rimasi incantata: c’erano tante ragazze riunite a fare sport, e i loro gesti, i loro movimenti mentre praticavano le arti marziali emanavano una forza e una potenza che non dimenticherò mai. Erano  ere, forti e bellissime e ho capito subito che volevo farne parte anche io».

È stato difficile affermarsi nelle arti marziali in quanto donna afghana?
«Inizialmente sì. Chiesi a mio padre il permesso di frequentare la palestra, ma mi venne negato. È un uomo gentile, consapevole dei benefici fisici e mentali dello sport. Al tempo stesso però, era preoccupato per me: il taekwondo è considerato un esercizio tipicamente maschile, e la mia famiglia fa parte degli Hazara, una minoranza etnica storicamente ghettizzata e perseguitata. Aveva paura di vedermi discriminata, mi diceva di pensare alla lingua e alla scuola, perché con quelle avrei potuto costruirmi una carriera. I miei fratelli e mia madre, invece, sono stati subito dalla mia parte, così mi iscrissi senza la sua approvazione. Mi sono allenata per un anno intero, partecipando alle competizioni e iniziando a collezionare medaglie. Dopo aver vinto i campionati regionali, ho deciso di raccontare a mio padre dei miei allenamenti e, anche se all’inizio temevo che mi impedisse di continuare, è stato molto felice per me. Nel 2019 facevo parte della nazionale afghana. Nello stesso anno, ho vinto l’oro ai campionati universitari in Corea del Sud».

E poi la fuga.
«Ero in palestra quando ho ricevuto una telefonata di mia sorella. Mi diceva di lasciare Herat e di raggiungerla a Kabul, dove viveva. I talebani stavano prendendo la nostra città natale, ma la capitale sembrava essere al sicuro. Tornai a casa, presi con me un’altra delle mie sorelle e volammo a Kabul. I nostri genitori erano al lavoro e non abbiamo potuto salutarli, ma non ci importava. Avevamo paura dei talebani, della violenza che sono soliti usare contro le donne e dei matrimoni forzati che impongono alle ragazze più giovani. Eravamo convinte di dover attendere solo qualche giorno nella capitale mentre i militari ripristinavano l’ordine. Una settimana dopo invece, Kabul è caduta. Nessuno avrebbe mai pensato che sarebbe stato tanto semplice per loro prendere il controllo. Siamo rimaste chiuse in casa per una settimana. Poi la telefonata dell’ambasciata turca: mia sorella collaborava con loro e insieme alla diplomazia italiana sono riusciti ad inserirci in un programma di espatrio per rifugiati. Erano le 10 di sera, a mezzanotte avevamo preso una decisione univoca. Eravamo pronte a lasciarci ogni cosa alle spalle, la nostra casa, i nostri genitori e la nostra sorella più piccola, rimasti a Herat, pur di salvarci la vita. Alle 6 eravamo in aeroporto, e dopo un giorno d’attesa sono comparsi tre voli disponibili: le mete erano Italia, Belgio o Stati Uniti. Siamo semplicemente salite sul primo in partenza, atterrando a Roma. Era il 22 agosto 2021».

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In Italia l’opportunità di ripartire da zero. Che ruolo ha avuto lo sport in questo nuovo inizio?
«È stato fondamentale. Quando parti lasci indietro tutto: averi, casa, famiglia, amici. Salvi solo te stesso, e nel mio caso, lo sport. Il nostro centro di prima accoglienza si trovava a Genova, lì è stato facile trovare una palestra e continuare con le arti marziali. Il mio allenatore mi ha messa in contatto con l’associazione nazionale di taekwondo. Mi hanno ospitata per dieci giorni a Roma, dandomi la possibilità di allenarmi insieme alla nazionale. Ho deciso di chiedere nuova accoglienza a Roma, per restare il più vicino possibile all’associazione e dall’aprile del 2023 faccio parte del programma olimpico per rifugiati. È un progetto importantissimo, nato dalla collaborazione tra Unhcr e il comitato olimpico per aiutare gli atleti espatriati a continuare i loro allenamenti».

Oggi cosa c’è nella sua vita oltre agli allenamenti?
«Il taekwondo resta al centro del mio mondo, la mancata quali cazione per Parigi 2024 fa male, ma combatterò più duramente in futuro. Agli allenamenti ho affiancato lo studio, iscrivendomi al corso di laurea in Relazioni internazionali, e il volontariato per alcune associazioni umanitarie. Il mio obiettivo non guarda più solo al successo sportivo, oggi vorrei sensibilizzare la popolazione sulle condizioni delle donne in Paesi come l’Afghanistan. Sono passati tre anni da quando me ne sono andata, e in questo tempo io ho avuto la possibilità di ricominciare, mentre le donne rimaste hanno continuato a perdere diritti giorno dopo giorno: la mia sorellina non ha potuto finire le scuole, da anni non le è più permesso toccare un libro. Mio padre, che aveva un’azienda di trasporti, è stato costretto a chiudere l’attività a causa della minoranza etnica a cui apparteniamo. Le mie compagne di allenamento non hanno più una palestra. Qualcuna è riuscita a scappare in Pakistan o in Iran, ma quelle che sono rimaste ora non hanno più nulla. Dopo una vita di sacrifici hanno visto tutti i loro diritti strappati via: lavoro, sport, studio, sanità, libertà sono ormai ricordi lontani».

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