Cita De André, non ha profili social, di lavoro ha fatto il portiere senza essere un gigante e ora ha deciso di lasciare il calcio per potersi dedicare all’azienda agricola di famiglia, in campagna. Sicuramente non è stato il “classico” calciatore a cui siamo abituati, Gian Maria Rossi, portiere di Ravenna che nel Ravenna ha iniziato la sua carriera e l’ha chiusa ufficialmente poche settimane fa, a 37 anni, perfettamente integro, al termine di un’annata che l’ha visto grande protagonista, se non in campo, sicuramente nella crescita di un gruppo che ha sfiorato l’impresa di tornare in serie C senza averne inizialmente le ambizioni.
Gian Maria, perché hai deciso di smettere? Il Ravenna non ti ha fatto proposte?
«Dal Ravenna non ho ricevuto nessuna chiamata, a parte qualche chiacchiera informale prima della fine della stagione. Ma non ha influito nella mia decisione, che avevo già in testa. Dovevo valutare un po’ di situazioni, magari una possibilità di scendere di categoria per accompagnare il mio lavoro futuro, ma poi ho pensato di non riuscire a gestire al meglio entrambi gli impegni. E sapevo già di non voler rimanere nel mondo del calcio».
Non ti piace?
«Mi piace tantissimo giocare. Ma non ho la passione che serve per poter allenare o fare altro. Non guardo neanche le partite in tv, se non per stare in compagnia di amici. E poi ho sempre pensato che poter decidere di lasciare il calcio fosse un grande privilegio: non volevo smettere perché considerato finito o senza squadra».
I tifosi ti hanno dedicato uno striscione toccante…
«Colgo l’occasione per ringraziarli pubblicamente, privatamente lo ho già fatto. Penso che quello striscione vada oltre il calcio e per me era importante lasciare un bel ricordo come persona. Io sono nato qui, ho fatto qui il settore giovanile, per me Ravenna è una piazza di cuore. Ed è stato motivo di orgoglio quest’anno essere riusciti a riaccendere l’entusiasmo, essere riusciti a trascinare i tifosi, che hanno dato a loro volta una grande risposta: ricordo i 700 di Forlì, la curva piena a Carpi, il derby sempre con il Forlì in casa… Ora con Cipriani cambia tutto, l’obiettivo della serie C è dichiarato e sicuramente l’entusiasmo ci sarà già fin da questa estate: da esterno voglio dire ai tifosi di stare vicini alla squadra anche nei momenti negativi, perché non è comunque mai semplice vincere un campionato».
Cosa ricordi dei tuoi esordi? Quanto hanno pesato i tuoi 180 cm per cercare di essere credibile nel tuo ruolo, inizialmente?
«Diciamo che quando ero giovane erano altri tempi: all’epoca il portiere più forte in circolazione, il mio idolo, era Angelo Peruzzi, che era alto quanto me adesso. C’era meno questa inclinazione di oggi a voler puntare in primis all’aspetto puramente fisico. C’era più attenzione alla tecnica di base, in quel periodo la scuola italiana dei portieri era la migliore al mondo. Nonostante questo, la mia altezza è sempre stata un motivo di chiacchiericcio nei miei confronti, me ne rendo conto. Ma allo stesso tempo è stata anche motivo di orgoglio per essere riuscito a fare comunque una discreta carriera».
Quando hai capito che il calcio poteva diventare il tuo lavoro?
«Non certo da ragazzo, quando ho sempre pensato solo a divertirmi, anche perché i miei non avevano alcuna ambizione e non mi hanno mai messo giustamente pressioni di questo tipo. Mi ci sono trovato senza pensarci, a fare il calciatore, e mi sento fortunato a essere riuscito a fare di una passione il mio lavoro».
Pro e contro di fare il calciatore professionista?
«Io l’ho sempre visto come un lavoro vero, per il quale fare delle rinunce a fronte di alcuni privilegi. Quindi vita corretta e sana, prendersi cura del proprio stato fisico e anche mentale: ogni domenica in fondo era come un esame. Tra i contro ci sono anche situazioni come quella che ho vissuto ad Andria, dove sono stato sette mesi senza stipendio. Oggi ci sono più tutele, anche se in serie C i contratti non sono più così ricchi come 10-15 anni fa».
Perché il portiere? È vero che bisogna essere un po’ “pazzi”?
«Non saprei, di certo a me è sempre piaciuto fare di testa mia, andare in direzione “ostinata e contraria”. E il portiere è l’unico ruolo diverso da tutti gli altri, è stato un modo per non conformarmi al resto».
I momenti più belli della tua carriera?
«Tutti gli esordi, sicuramente, quindi quello in C1 con la vittoria a Salerno o quello in B con il pareggio contro il Bologna al Benelli. E poi la vittoria del campionato con il Ravenna (la promozione in B del 2007, ndr), quella con il Bassano. Le tre salvezze di fila ai playout con l’Imolese, per cui credo di essere stato determinante. E anche l’ultima stagione è stata fantastica».
E quelli più brutti? Il gol preso due anni fa direttamente dal portiere del Modena, che ha girato molto sui social?
«Quello non lo vedo come uno dei momenti più brutti. Certo, è stato un errore eclatante, ma con il tempo impari a gestirli, gli errori, capisci che fanno parte del gioco. In quel caso è stato peggio quello che è successo dopo, le accuse di combine o altro, che fortunatamente senza avere i social ho solo sentito riportate da altri. In quei giorni però ho ricevuto tanti messaggi di conforto da persone che non sentivo da tanto tempo, è stato bello. In realtà, i momenti più brutti sono quelli legati agli infortuni e purtroppo ne ho avuti diversi. Non è facile rialzarsi».
Cosa ti mancherà di più?
«Probabilmente non ho ancora realizzato. So che la domenica sarà diversa, senza l’adrenalina che mi ha accompagnato per 20 anni. Ma quello che mi mancherà di più probabilmente è lo spogliatoio. Quando trovi l’alchimia giusta, come nell’ultimo anno a Ravenna, è sempre un piacere andare al campo. E mi mancherà l’allenamento: mi è sempre piaciuto e ci ho sempre creduto molto, ho sempre pensato che fosse lo specchio del giocatore e della persona che sei; non mi sono mai gestito,ho sempre fatto fatica con piacere e gusto. Quello che apprezzerò, invece, ora, è senza dubbio il tempo in più da dedicare alla famiglia (Rossi è sposato con Laura e padre di due bambini, Cloe e Jacopo, ndr)».