Per 28 giorni di fila si vive in sei adulti chiusi in un cilindro di dodici metri di lunghezza e due di diametro, quando si parla la voce esce come quella di Paperino, e ogni giorno si lavora 8 ore immersi in acqua anche a 4-5 gradi di temperatura a 80-100 metri di profondità. È la vita di quelli che in gergo vengono chiamati Ots, operatore tecnico subacqueo: il lavoratore che svolge le attività della subacquea industriale nell’ambito portuale e nelle relative adiacenze.
Marcello Casadei vive a Cervia, ha 47 anni e fa questo lavoro da quasi trent’anni: «Ho lavorato nelle acque di tutto il mondo. Per esempio Indonesia, Spagna, Libia, Egitto, Azerbaigian, Brasile. Non so ancora dove sarà il prossimo cantiere, potrebbe essere Dubai o Trinidad». Un tempo tra le attività svolte c’erano soprattutto le saldature. Oggi il lavoro è cambiato: «Principalmente facciamo manutenzione e controlli sullo stato di usura di infrastrutture marine sui fondali, qualche volta recupero di materiali».
Alla base del lavoro c’è la “tecnica di saturazione”, applicata quando si opera oltre i 50 metri di profondità. Nella camera iperbarica dei sommozzatori – installata all’asciutto a bordo di una nave che mantiene la posizione sul punto del cantiere – si crea la pressione simile alla profondità operativa. Dopo essere stati esposti per diverse ore a questa pressione, tutto il gas nel corpo risulta alla stessa pressione a cui sarà sottoposto raggiunta la quota di lavoro e quindi i sommozzatori potranno operare senza la decompressione.
Il vero turno di lavoro in acqua comincia con l’ingresso nella cosiddetta campana che ha la stessa pressione: «Per rendere l’idea si può dire che in tre ci infiliamo in uno spazio che ha la misura di un bagno chimico. Diciamo che ci respiriamo in faccia, non è un lavoro per chi è schizzinoso». La campana si sgancia dalla nave e scende negli abissi, senza mai adagiarsi sul fondo:
«Per ragioni di sicurezza deve restare in galleggiamento. Si apre il portello, due sommozzatori vanno sul fondale e uno resta nella campana per il coordinamento». I sub indossano il casco e la muta, in alcuni casi riscaldata, e lavorano tirandosi dietro l’ombelicale, un robusto insieme di manichette e cavi che lo collega alla campana e dal quale ricevono tutte le utenze per la sopravvivenza. «Ogni tre ore torniamo nella campana per idratarci perché si perdono tantissimi liquidi. Nel casco il viso è asciutto e possiamo parlare via radio con i colleghi. La voce è come quella di Paperino per effetto della miscela di gas, tra cui l’elio, che respiriamo nell’ambiente. Quando usciamo a terra torna subito normale».
La velocità di pensiero è fondamentale: «Ogni procedura che mettiamo in atto è pensata per fronteggiare il peggior scenario possibile. Ci auguriamo non succeda mai, ma il rischio c’è e in quei momenti il tempismo è vitale. Il mio consiglio è di guardare il film e documentario “Last Breath”». Oltre alle ore in acqua, ci sono circa 18 ore al giorno da trascorrere in quel cilindro di 12 per 2: «Ti fai una doccia e mangi e poi cerchi di far passare il tempo. Una partita a carte o un libro, ma ora che abbiamo il wifi è tutta un’altra cosa: finiamo tutti con la faccia sul telefonino a guardare una serie tv o chattare con la famiglia. Sono lontani i tempi in cui scrivevamo lettere a mano che passavamo alla sala operativa per farle inviare via email».
E poi si ammazza il tempo chiacchierando: «La cosa incredibile è che sei chiuso in uno spazio piccolo, non puoi uscire, eppure per certe cose là sotto ti senti più libero di quando sei in superficie. Ti senti libero di raccontare cose personali a persone che magari non rivedrai più alla fine di quel contratto e intanto fatichi a mantenere le relazioni e le amicizie che hai in superficie. Una buona parte di chi fa questo lavoro è separato dalla moglie». Alla luce di tutto ciò, diventa comprensibile il rammarico di Casadei per l’inquadramento lavorativo: «Siamo un po’ sconosciuti. Per la legge italiana siamo dei semplici metalmeccanici, senza distinzioni rispetto a chi lavora in fabbrica e senza riconoscimento del lavoro usurante. Non c’è una categoria specifica. Quindi dovremmo andare in pensione a 67 anni, ma oltre i 50 diventa pesante fare questo lavoro, qualcuno arriva a 53-54 ma sono pochi. Poi tocca inventarsi altro».
Casadei lavora come freelance: «Ho iniziato con la Rana Diving di Ravenna. Mi contattarono quando andavo a raccogliere cozze a Comacchio. Andai a provare per curiosità e mi innamorai di questo mondo. A vent’anni poi alla fine di ogni missione mi ritrovavo con una paga di 5 milioni di lire e mi sentivo un vip». Oggi i guadagni sono diversi: «Non è pagato male, ma non si pensi che siamo milionari perché ci sono limiti di impiego. Da giovani c’è chi fa anche 6-7 mesi all’anno di attività, poi cresci e arriva la famiglia e hai altre priorità». La durata delle missioni è di 4-6 settimane. «Poi deve seguire un periodo di riposo pari ai giorni trascorsi in saturazione. Abbiamo bisogno di camminare, ma senza fare sforzi. Le analisi dicono che a fine missione si riscontra un principio di osteoporosi che si recupera subito respirando aria normale». Però la prima necessità, una volta emersi dagli abissi, è guardare lontano: «Là sotto hai il campo visivo sempre corto e l’occhio si stanca. Quando usciamo di solito ci mettiamo a prua della nave in silenzio a guardare verso l’orizzonte, a fissare il nulla, cercando anche il nulla nella testa. Perché è un lavoro che puoi fare se hai un po’ di follia, ma devi anche restare lucido se vuoi continuare a farlo».
Il cortometraggio di Yuri Ancarani presto online su Mubi
Il subacqueo Marcello Casadei è uno dei protagonisti di “Piattaforma Luna”, il cortometraggio del regista ravennate Yuri Ancarani proiettato alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2011 e prossimamente visibile sulla piattaforma streaming Mubi. Il regista ha messo davanti alla macchina da presa dei veri lavoratori per le loro storie e l’ha definito il luogo più estremo dove ha girato: «Volevo seguire da vicino questo lavoro così estremo, per tre giorni abbiamo vissuto nella camera iperbarica sotto pressione, un’esperienza davvero forte».