martedì
24 Giugno 2025
l'intervista

«Troppa retorica sulla Resistenza, ma sono chiari i valori delle parti in campo»

Il giornalista Luca Misculin presenta un podcast dedicato ai fatti tra il 1943 e il 1945. «Le potenze mondiali di oggi non hanno ancora deciso chi sono i cattivi della Storia»

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Luca Misculin

La Resistenza è forse l’argomento del dibattito pubblico e politico che più di tutti si porta appresso l’aggettivo “divisivo”. Ogni anno, puntualmente, si ripropone la contrapposizione fra schieramenti: tanti luoghi comuni, frasi fatte, ricostruzioni abbozzate e spesso piegate a proprio uso e consumo. «C’erano tutte le condizioni per realizzare un racconto divulgativo che cerchi di spiegare per bene le cose», dice Luca Misculin, giornalista de Il Post. Così è nato “Una Mattina”, un podcast di tre stagioni dedicato al movimento di massa che si sviluppò in Italia tra il 1943 e il 1945 per liberarsi dal nazi-fascismo. La prima stagione di cinque puntate sugli eventi del 1943 è disponibile da oggi, venerdì 25 aprile. Di questo, ma anche del suo libro Mare Aperto dedicato al Mediterraneo, Misculin parlerà a Lugo il 26 aprile in occasione della seconda edizione di “Fratture”, la giornata di conversazioni organizzata dalla rivista Pandora.

Misculin, come nasce l’idea di questo podcast?
«Ci pensiamo da un paio di anni, partendo dalla constatazione che ormai di Resistenza in Italia se ne parla poco e male. Sono rimasti pochi testimoni diretti di quei fatti ancora in vita. I meglio intenzionati che tengono viva la memoria poi spesso tendono a raccontare l’esperienza di partigiani e partigiane come se fossero vicende eroiche da piedistallo con un carico di retorica importante. E va detto che siamo immersi in un clima politico che non aiuta: ci sono ministri e ministre che preferirebbero ignorare il 25 aprile perché alle spalle hanno la storia di chi uscì sconfitto da quegli anni».

È un argomento che tocca anche le giovani generazioni?
«I più giovani ne hanno poca contezza perché è un argomento che arriva sempre a fine dei cicli scolastici e fatto spesso di fretta».

Perché la scelta del formato podcast?
«In parte proprio con l’obiettivo di arrivare a pubblici anche giovani. Ma anche perché c’è una vasta disponibilità di materiale audio e usare la viva voce delle persone ha una forza enorme in questo tema».

I podcast sono diventati un prodotto giornalistico consolidato?
«Il Post li realizza da tempo. Si sposano bene con il nostro approccio al lavoro giornalistico, soprattutto per il linguaggio, sia perché richiedono attenzione alla scelta delle parole e sia perché richiedono un tono informale ma autorevole che ci ha sempre caratterizzato».

Questo sulla Resistenza parte già annunciando altre due stagioni che usciranno nel 2026 e 2027. Non è comune una pianificazione così a lunghissima scadenza…
«Dobbiamo ringraziare abbonati e abbonate. Oggi sono più di centomila (l’abbonamento annuale costa 80 euro, ndr) e ci consentono di fare lavori più approfonditi: nel mio caso ho potuto dedicare gli ultimi tre mesi quasi esclusivamente al podcast».

Qual è il taglio con cui avete affrontato il tema?
«Il solito approccio de Il Post: rimanere sulle cose concrete, affidarsi e chi ne sa di più attraverso documenti o interviste, spiegare perché alcune persone hanno compiuto una scelta invece di un’altra, descrivere il periodo storico avvelenato dalla propaganda fascista».

Il “rigore postiano” impone una posizione obiettiva anche su un argomento che vede in campo valori così distanti fra le parti?
«Rigore non significa equidistanza. Abbiamo ben chiari i valori in cui ci riconosciamo, quelli di una società libera in cui c’è libertà di stampa. Diremo molto chiaramente che da una parte c’era un’Italia violenta e dell’altra un’Italia democratica. Ma senza dimenticare il contesto: per esempio, i giovani nati dopo il 1920 erano cresciuti in un ambiente imbevuto di propaganda senza aver mai conosciuto alternative. E questo va raccontato per capire le scelte delle persone».

Interrogarsi su questioni di neutralità e oggettività del racconto dovrebbe essere l’Abc del giornalismo. Ma ha senso farlo se poi i giornali, di fatto, sono in concorrenza con tanti altri canali che non hanno obblighi deontologici e poi magari raggiungono pubblici molto più vasti?
«In un mondo in cui tutto sembra andare troppo veloce penso che offrire un racconto autorevole e credibile sia un valore importante. Purtroppo alcuni giornali hanno rinunciato a questo ruolo, finendo per avvelenare i pozzi per tutti. A Il Post siamo convinti che si veda se c’è un prodotto giornalistico solido e speriamo che sempre più persone lo apprezzino e quindi lo cerchino».

L’immagine che oggi abbiamo dei fatti di ottanta anni fa sembra dirci che a un certo punto le potenze più importanti del mondo si trovarono concordi nell’individuare il male da fermare. Una posizione così univoca non sta maturando sugli scenari attuali in Ucraina e in Palestina.
«Oggi gli Stati con più autorevolezza internazionale non sono d’accordo su chi siano i cattivi della storia da condannare. Lo scenario è incerto, ancora di più dopo l’arrivo di Trump negli Usa».

Se andiamo rileggere le pagine di molti giornali del 2022 con i primi commenti e analisi dell’invasione russa troviamo tante dichiarazioni invecchiate male. I media hanno sbagliato nella scelta delle fonti da interpellare o era inevitabile commettere errori?
«A mio parere su una questione delicata come la guerra non è stato fatto un gran servizio dai media italiani, dando più spazio a chi la sparava grossa e scatenava l’emozione più forte. Tanti giornali sono sempre più interessati a coltivare un proprio pubblico, a schierarsi a favore di un racconto identitario piuttosto che uno fedele alla realtà. Ma è anche un sintomo di come funziona la società di oggi, sempre più divisa in tribù, dove siamo sempre più incattiviti e ci circondiamo solo di chi la pensa come noi».

Tra le conseguenze più drammatiche dei conflitti ci sono spesso le migrazioni di popoli. Nel 2023 è stato 12 giorni nel Mediterraneo sulla nave Geo Barents di Medici senza frontiere. Oltre al podcast che ne è uscito, cosa le rimane di quella esperienza?
«Seguo i temi delle migrazioni da tempo. Prima di salire a bordo avevo avuto occasione di parlare con migranti e con operatori in servizio sulle navi. Ma quello che puoi vedere in prima persona è molto più complesso di qualunque spiegazione. E poi ricordo la terribile sensazione del mal di mare, difficile non pensare a persone che si avventurano su barche di fortuna senza aver mai visto il mare prima in vita loro. Quella missione di soccorso sembrava destinata a finire con lo sbarco proprio a Ravenna e poi invece venne assegnato Bari come porto sicuro».

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