martedì
24 Giugno 2025
approfondimenti

Rasha Nahas e Nada Elia. Atti di resistenza di due donne palestinesi

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Alla vigilia della mobilitazione social del 9 maggio “L’ultimo giorno di Gaza – L’Europa contro il genocidio”, riceviamo e volentieri pubblichiamo questo intervento dell’attivista Marina Mannucci, scritto all’indomani del concerto ravennate di Rasha Nahas, per tenere alta l’attenzione sulla Palestina.

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Il 24 aprile, al Teatro Rasi di Ravenna, il concerto di Rasha Nahas ha aperto la prima rassegna realizzata in Italia dedicata alla diaspora palestinese; i successivi concerti in programma di Kamilya Jubran, 47Soul e Bashar Murad si terranno rispettivamente il 23-24-25 maggio al Teatro Alighieri di Ravenna; eventi promossi dal Festival delle Culture in collaborazione con Ravenna Festival.

Accompagnata sul palco da Jelmer De Haan al basso e Altair Chague alla batteria, Rasha Nahas, per mezzo della forza della sua musica, delle parole scelte, delle lingue utilizzate, come anche del suo linguaggio – un misto di storia, arte e poesia – ha suscitato l’interesse, il coinvolgimento emotivo e l’apprezzamento di un pubblico composto soprattutto da ragazze e ragazzi che avevano gremito il teatro. Lo stile musicale di quest’artista intreccia influenze musicali tradizionali e popolari dei villaggi palestinesi di Tarshiha nell’Alta Galilea e di Haifa, dove è nata e cresciuta, con la cruda intensità del rock elettrico di Berlino, dove la compositrice, cantante, cantautrice e strumentista attualmente vive. Rasha suona e scrive canzoni fin da bambina. Crescendo, studia chitarra classica e produce canzoni e le esegue dal vivo; si esibisce nei locali pubblici di Haifa con musicisti e gruppi, diventando una figura di spicco della scena musicale underground palestinese. Nel 2016 esce il suo primo Ep in lingua inglese Am I, prodotto tra Haifa e Bristol nel Regno Unito. All’età di ventuno anni l’artista si trasferisce a Berlino dove nel 2021 debutta con l’album rock teatrale-poetico in lingua inglese, acclamato dalla critica, Deserted, prodotto dall’etichetta Rmad Records; nei brani, vi è il racconto del suo “viaggio Haifa-Berlino”. Nel 2023 Rasha pubblica Amrat (A volte in arabo), dell’etichetta indipendente britannica Cooking Vinyl, lavoro che segna il suo approccio con testi in lingua araba, in cui esplora temi del dualismo urbano e rurale: «C’è una ragazza libera che balla a piedi nudi su una montagna. Nei suoi occhi si vede il riflesso del mare». L’album, registrato sulle alture occupate del Golan, vanta il contributo di musicisti di spicco della scena musicale indo-palestinese. Rasha ha una vasta esperienza come compositrice e autrice anche per il cinema e il teatro; tra i suoi lavori la creazione di pezzi originali per la scena artistica berlinese e il Thalia Theater di Amburgo. Nel 2024 Rasha interpreta un ruolo speciale nella seconda stagione della sitcom televisiva britannica We are Lady Parts, scritta e diretta da Nida Manzoor; la serie segue un gruppo punk rock britannico composto interamente da donne musulmane. Rasha è tra le prime donne a essere selezionata a ricevere un compenso dalla Bertha Foundation Artivism Awards, un programma che offre finanziamenti ad artisti/e attivisti/e, collettivi artistici e organizzazioni per utilizzare l’arte come un appello all’azione, nonviolento, per suscitare un cambiamento misurabile in una comunità. In un’intervista del 2023 in cui la giornalista di 972 Magazine, Vera Sajrawi, chiede a Rasha cosa significhi per lei essere un’artista indipendente, donna, araba, palestinese, lei risponde che «A volte significa tutto e a volte non significa niente» e che il suo rapporto con la sua identità cambia quando è nella diaspora rispetto a quando è in Palestina. «Quando torno a casa, faccio parte di una comunità: le persone mi assomigliano, si vestono come me, e c’è un discorso in cui le idee vengono condivise. Ma quando sono in Europa, sento di funzionare in un diverso ruolo – come i miei capelli neri e ricci hanno un posto diverso qui, e il mio corpo come persona di colore, un’artista donna, svolge una funzione diversa quando sono fuori dal mio ambiente».

Nada Elia
Articolo Mannucci Nada Elia Copertina Libro«“La Palestina è una questione femminista”, scrive Nada Elia all’inizio del terzo capitolo di questo libro. In buona parte, come l’autrice approfondisce, è una questione femminista perché le donne sono state particolarmente penalizzate dall’occupazione israeliana. Uccise, stuprate, obbligate a partorire sotto il controllo medico israeliano, denutrite, costrette a vedere i propri figli e figlie morire sotto le bombe, nelle camere di tortura, o negli ospedali, le donne palestinesi hanno costituito fin dalla Nakba del 1948 un bersaglio chiave di Israele». Questa citazione è tratta dalla prefazione di Francesca Coin e Sara R. Farris alla traduzione italiana del libro di Nada Elia, Greater that the sum of our parts. Feminism. Inter/Nationalism, and Palestine (London, Pluto Press, 2023), scrittrice palestinese della diaspora, attivista del Palestinian Feminist Collective e docente di Global and Gender studies alla Western Washington University, che ha scelto, come titolo, proprio l’affermazione: La Palestina è una questione femminista.

Prendendo spunto dal fenomeno noto in inglese con l’acronimo Fep (Feminist Except for Palestine) relativo a eventi che risalgono agli anni Sessanta, quando diverse femministe arabe vennero abbandonate da gruppi di femministe americane per il loro sostegno alla causa della liberazione palestinese, Elia sostiene che il cosiddetto femminismo del Nord del mondo spesso, ancora, si rifiuta di prendere atto delle condizioni delle donne palestinesi, come dimostra la loro continua esclusione dai dibattiti nazionali e globali sui problemi delle donne. Le donne progressiste non bianche e indigene, insieme alle donne bianche antimperialiste e antirazziste, oggi però, sono fermamente antisioniste e sostengono che ideologie che si basano su supremazia e discriminazione sono inconciliabili con il femminismo e non possono che essere riconosciute come supremazie di genere (se ne parla a pagina 116 del libro). L’autrice sostiene, infatti, che il progetto sionista sia coloniale e per questa ragione assoggetti le donne in quanto portatrici delle tradizioni del passato e della riproduzione biologica legata al futuro del popolo colonizzato.

Articolo Mannucci Nada EliaLa questione palestinese è, indubbiamente, una questione coloniale e, in quanto tale, bisogna studiarla a partire dalla cultura razzista che attribuisce al colono una presunta supremazia e alla popolazione occupata una presunta inferiorità; una logica di disumanizzazione per sostituire un popolo con un altro. Il documentario No Other Land, premiato al Festival Internazionale del Cinema di Berlino e come migliore documentario agli Oscar 2025, diretto, prodotto, scritto e montato dal collettivo palestinese-israeliano formato da Basel Adra, Yuval Abraham, Hamdan Ballah e Rachel Szor, ben lo dimostra. Quando nel gennaio del 2023 esce l’edizione inglese del suo libro, Nada Elia non poteva sapere quanto sarebbe successo nel giro di pochi mesi; la sua intenzione è mostrare «il volto cattivo di Israele come stato coloniale d’insediamento e del sionismo come ideologia razzista» (ne scrive a pagina 17) e dare rilievo all’attivismo delle donne, delle persone queer, delle/dei giovani palestinesi e anche all’attivismo della diaspora che, ovunque nel mondo, si interseca con altre lotte che si rispecchiano in sfaccettature anche della lotta palestinese. L’autrice sostiene che la Palestina è una questione anticarceraria, anticoloniale, antirazzista, ecologista, femminista e, grazie anche all’approfondimento delle differenze e delle somiglianze tra sistema israeliano e sudafricano, trae spunti utili per auspicare equi riconoscimenti al popolo palestinese. Il suo interesse si focalizza sulla componente di genere del colonialismo d’insediamento e del razzismo; l’apartheid in quanto sistema di razzismo legalizzato è l’esito del colonialismo in quanto manifestazione imperialista. La «Palestina – scrive Elia – è un paese colonizzato il cui popolo indigeno è stato spossessato e privato dei diritti, mentre i coloni, protetti dall’esercito, dalle forze di polizia e dal sistema legale di uno stato coloniale, hanno preso il sopravvento e continuano a sottrarre terre, case, villaggi e risorse naturali palestinesi» (citazione da pagina 27). La Nakba (catastrofe) è ancora in corso. Colonialismo d’insediamento, violenza di stato e femminicidi sono riconducibili a un unico disegno: questa la tesi sostenuta nel libro a motivazione del perché la lotta palestinese debba essere intesa anche come lotta femminista e abolizionista intersezionale. Nel libro vengono evidenziate le azioni delle donne palestinesi nel contrastare il colonialismo dai giorni del mandato britannico a oggi, anche se il lungimirante attivismo dal basso delle donne «è stato marginalizzato in seguito agli accordi di Oslo del 1993, che hanno facilitato il ritorno al potere di politici palestinesi maschi che chiaramente mancavano dell’immaginazione trasformativa necessaria per farci uscire dal pantano del “processo di pace”» (citazione da pagina 33). Elia sostiene la tesi della necessità di guardare oltre l’invenzione coloniale delle dicotomie, che sia la soluzione dei due stati, di madrepatria e diaspora, di ebrei e arabi: «[…] dopo decenni di tentativi da parte di governi e politici di istituire uno “stato” palestinese indipendente, gli intellettuali e gli attivisti palestinesi guardano oltre la soluzione di due stati, esplorando la nazionalità in un’ottica decoloniale piuttosto che di costruzione statuale. È questa la visione trasformativa, abbracciata dalle attiviste femministe palestinesi, che accompagna le loro invocazioni abolizioniste» (pagina 37).

Nel primo capitolo, in cui sono approfondite la questione del colonialismo d’insediamento e la resistenza indigena, vengono riportate citazioni di diversi pensatori sionisti, tra cui Benny Morris (docente di Storia al Dipartimento di Studi Medio-orientali della Università Ben Gurion del Negev a Be’er Sheva, Israele), autore di diversi libri sulla fondazione di Israele e di ricerche approfondite negli archivi dell’esercito israeliano, che non nega l’espulsione del popolo palestinese e, in un’intervista concessa al quotidiano israeliano indipendente Haaretz, afferma: «Non sarebbe nato uno stato ebraico senza lo sradicamento di settecentomila palestinesi. Era quindi necessario sradicarli. Non c’era altra scelta che espellere quella gente. Era necessario ripulire l’entroterra, ripulire le zone di confine e ripulire le strade principali. Era necessario ripulire i villaggi da cui si sparava sui nostri convogli e sui nostri insediamenti». Scrive ancora Elia: «Morris ritiene che l’espulsione di oltre settecentomila palestinesi sia stata insufficiente e che David Ben-Gurion, comandante delle milizie sioniste nel 1948, avrebbe dovuto espellere ogni singolo palestinese»; affermazione supportata dal seguito dell’intervista rilasciata a Haaretz dallo storico: «Una volta cominciata l’espulsione, forse avrebbe dovuto finire il lavoro. So che questo stupisce gli arabi, i liberali e la gente politicamente corretta. Ma la mia sensazione è che questo luogo sarebbe più tranquillo e conoscerebbe meno sofferenze se la questione fosse stata risolta una volta per tutte. Se Ben-Gurion avesse portato a termine una grande espulsione e ripulito l’intero paese, l’intera Terra di Israele, fino al fiume Giordano. Un giorno potremmo scoprire che è stato il suo errore fatale. Se avesse portato a termine un’espulsione totale, piuttosto che parziale, avrebbe stabilizzato lo Stato di Israele per generazioni». Per Elia, come del resto per i palestinesi tutti, rimane un imperativo mettere in discussione la retorica sionista in Occidente ed anche il genderwashing operato dal colonialismo d’insediamento che mette in risalto la cultura apparentemente aperta e le libertà sessuali di Israele, come è altrettanto fondamentale presentare la causa palestinese come una causa decoloniale, come un impulso irreprimibile verso la liberazione e la giustizia. Si tratta di una resistenza all’imperialismo, al colonialismo e all’oppressione, non di “terrorismo”, né di odio antiebraico.

In una Nota terminologica l’autrice puntualizza: «In tutto il libro, con Palestina mi riferisco all’intero paese, dal fiume Giordano al mar Mediterraneo. La nazione esiste da migliaia di anni e continua a esistere ancor oggi. Il fatto che Israele occupi attualmente quella terra cambia lo status politico della Palestina, ma non ne preclude l’esistenza. Inoltre, la crescente presa d’atto che non ci sanno mai due stati tra il fiume e il mare, che l’unità del popolo palestinese non può essere negata nonostante la frammentazione politica e geografica e che una visione del mondo decoloniale capace di andare oltre il concetto di stato-nazione è una precondizione necessaria per l’autodeterminazione, conferma che la Palestina non può essere divisa» (alle pagine 39-40 del libro).

Marina Mannucci

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