È diventata virale sui social la lettera che una studentessa del liceo scientifico di Lugo ha scritto e affisso a scuola. A riprenderla, in particolare, è stato in questi giorni Enrico Galiano, docente lui stesso, oltre che scrittore e sorta di influencer.
«Dentro questa lettera – ha commentato Galiano – c’è tutto il dolore sommerso di chi ogni giorno entra in classe con la voglia di capire, di crescere, di trovare un senso, e ne esce svuotato. Io questa lettera l’ho letta ad alta voce. Perché non resti lì, appesa al muro, inascoltata. Perché possa diventare eco, domanda, riflessione. Perché oggi, più che mai, abbiamo bisogno di ascoltare».
Pubblichiamo qui di seguito il testo integrale della lettera.
«Cari professori,
è quasi un peccato essere arrivati così in basso da trovar necessario scrivere una lettera, ma non vi vedo soluzione. Secondo la cultura giapponese ogni persona dovrebbe possedere un ikigai, cioè uno scopo nella vita, quel qualcosa che ti fa svegliare la mattina. Bene, io l’avevo trovato nello studiare, lo facevo con passione, quasi devozione. Mi svegliavo la mattina consapevole che andare a scuola, imparare, studiare fosse il mio scopo. Poi ho iniziato a comprendere, ogni giorno di più, che non ha alcuna utilità: di utile, non mi viene spiegato nulla in modo appassionante, non vengo mai ricompensata per il duro lavoro. Quando arrivo a casa e devo aprire il libro per studiare mi viene da piangere, sento la mia mente chiudersi, bloccarsi. Quando sono in classe sento solo morte, mi guardo attorno e vedo i miei compagni con gli occhi spenti o addormentati, guardo verso di voi e vedo il nulla, solo una specie di automa che sputa parole su fatti decaduti i cui valori nascosti sono stati sepolti con le loro vittime. Continuate a ripetermi che i voti non contano, che non sono ciò che fanno una persona. Per fortuna è vero, ma giudicate ore e ore di studio, ore in cui sono stata attenta in classe, pensieri e pensieri attivati solo per essere giudicati mediocrementente, e chissà poi perché, dal momento che non mi viene mai spiegata una sola volta quali siano i problemi. Quando sono in bus per arrivare a scuola, mi chiedo perché mai stia venendo, perché mai ho anche avuto la cura di mettere i libri giusti nello zaino e di fare i compiti, quando so benissimo che intanto nulla verrà ricompensato. Mi domando perché la mattina mi sono alzata per andare in un luogo dove nessuno mi vede, dove nulla mi interessa, dove si è solo di fretta e in ansia per finire un programma che nessuno sa davvero perché segue, dove mi giudicate per quindici minuti e mettete sul registro un voto immotivato su qualcosa che mi avete spiegato in modo freddo, distante e morto. Pretendete un albero altissimo, meraviglioso, possente, ma non vi curate un minimo di innaffiarlo, di fertilizzarlo, di assisterlo con un bastoncino quando il fusto è troppo fragile. Che non vi venga in mente di dire che sto solo polemizzando perché intanto ogni volta che chiedete come sto, volete sapere solo che sto bene anche se tutto va male. Non volete sapere che sto soffrendo, che vengo a scuola solo per ottenere il diploma, che non mi viene spiegato nulla di nuovo. Non volete sapere che ognuno degli alunni delle vostre classi si sente solo, disperso, in ansia, che alcuni preferirebbero morire. Esigete la sapienza, le capacità, la maturità di persone molto più mature di noi, quando siamo solo diciassettenni che non sanno nulla sul mondo. Sappiamo solo che siamo oppressi, annoiati, devastati, terrorizzati dalle vostre verifiche, dalle vostre interrogazioni, dalle vostre parole. Ho delle domande per tutti voi, siate sinceri almeno con voi stessi, perché insegnate? Quando ci guardate cosa vedete? Credete che essere insegnanti sia un lavoro sociale?».