È in libreria da qualche settimana In vino felicitas – Manifesto per una vita larga (e felice) (Wingsbert House), scritto dal ravennate Andrea Casadio (medico, giornalista, autore tv, ex docente universitario e ed ex ricercatore di neuroscienze alla Columbia University di New York) insieme ad Alberto Grandi (scrittore e professore associato di Storia del cibo all’Università di Parma). Un libro godibilissimo e di grande interesse, che non promuove l’abuso né l’irresponsabilità ma difende invece la cultura del bere consapevole, moderato, gioioso. Ne abbiamo parlato con Andrea Casadio.
Qual è stata la molla che l’ha portata a questo libro?
«Dopo aver letto nel tempo tante cose prive di fondamento scientifico, la goccia che ha fatto traboccare il vaso della mia pazienza è arrivata il 17 giugno di quest’anno, quando sul Corriere della Sera è apparso un articolo dal titolo Trenta giorni senz’alcol: cosa succede al corpo (e alla mente). Ho deciso di controllare i dati, visto che nell’articolo era citata la fonte, ossia una rivista scientifica di bassissimo livello, il British Medical Journal Open. Io sono stato uno scienziato, di queste cose me ne intendo, e posso dire con tranquillità che quella pubblicazione è spazzatura. Chi ha in mano ricerche scientifiche buone prova a farsele pubblicare da testate come Science, Nature o Sel, le più importanti del mondo, importanza che si calcola tramite il cosiddetto Impact factor, ossia la misura del numero di volte in un anno che in media un dato articolo viene citato da altri scienziati in riviste prestigiose. Ad esempio, la più importante pubblicazione medica è Lancet, che in certi anni ha un Impact factor superiore addirittura a 200, il che significa che se pubblichi un articolo lì la tua ricerca è importantissima. Il British Medical Journal ha un Impact factor minore di 3, il che è imbarazzante, inoltre la dicitura Open significa che chiunque può mandare un articolo pagando, venendo pubblicato dopo un’analisi molto alla buona. Insomma, premesse pessime per una ricerca scientifica, ma poi leggo l’articolo facendo attenzione alla sezione “materiali e metodi”, che spiega come è stata fatta la ricerca».
E qui arriva il bello.
«Eh sì, perché se leggo che “il consumo abituale di alcol fa invecchiare precocemente il cervello, aumenta il rischio di tumori e malattie neurodegenerative, peggiora la qualità del sonno e altre cose”, uno si preoccupa e vuole capire. Dunque, questo studio ha preso due gruppi di oltre settanta persone, uno che non beve, l’altro che normalmente beve, ma beve quanto? Loro dicono che hanno scelto persone che consumavano come minimo 64 grammi di alcol alla settimana, ossia otto unità alcoliche, ossia una birra media o un bicchiere abbondante di vino al giorno, dunque bevitori medi, il che andrebbe bene per la ricerca. Poi uno va a leggere come era composto davvero il gruppo di studio e scopre che il consumo medio dei soggetti era di 260 grammi a settimana, vale a dire cinque birre medie al giorno, che non è esattamente definibile come un consumo moderato. Questa è gente a un passo dall’essere alcolista santi numi, è ovvio che se li tieni in astinenza per un mese i fattori di rischio si abbassano tutti radicalmente. La diminuzione dei fattori di rischio in questa popolazione di quasi alcolisti non è sicuramente rappresentativa della popolazione media, che è fatta di persone come me e te che probabilmente beviamo uno o due bicchieri di vino e neanche tutte le sere».
Certo l’alcol è sempre più demonizzato, ma ci sono dei motivi.
«Attenzione, io non dico che due bicchieri di vino al giorno non fanno male, ma che la quantità fa assolutamente la differenza. Prendiamo la questione più grave, ossia che l’alcol è un cancerogeno, e prendiamo nello specifico il cancro al colon retto. Premesso che sotto i 60 anni le percentuali sono ugualmente inferiori all’1% nel range che va da astemio a bevitore forte, sopra i 70 anni vediamo che gli astemi e i bevitori leggeri hanno la stessa probabilità del 2% di sviluppare il cancro al colon retto, i bevitori moderati il 3% (quindi una persona in più) e i bevitori forti il 4%. Sopra gli 80 anni le percentuali aumentano leggermente (si va dal 5 al 7%). Quindi il rischio è molto basso, per questa patologia, però se invece di dire che 4 persone su cento, tra i bevitori forti, invece che 2 tra i non bevitori, dici 50% in più, fa tutto un altro effetto. Quindi, l’alcol è sicuramente un cancerogeno, così come lo è anche l’aria della Pianura Padana o l’esposizione ai raggi solari. Non esiste il rischio zero che sbandierano le teorie salutiste. Vogliamo un altro dato? In Italia ogni anno l’inquinamento atmosferico causa circa 70mila morti, mentre l’alcol (considerando anche gli incidenti correlati) 17mila».
C’è poi un’imprescindibile questione antropologica legata all’alcol.
«Esattamente, da almeno 10mila anni l’alcol è parte del nostro codice culturale. Non serve glori carlo, certo, ma nemmeno demonizzarlo come fosse Satana in bottiglia. È un rito, un linguaggio, un’arte liquida che da millenni accompagna l’uomo nella festa, nel lutto, nella trattativa, nella seduzione e nella disperazione post-rottura. L’alcol, insomma, è umano. Troppo umano».



