Difensore centrale di “culto” della serie A degli anni ottanta e novanta, con il Milan in tredici stagioni ha vinto tra le altre cose cinque scudetti e tre Coppe dei Campioni. Filippo Galli sarà l’ospite di eccezione dell’incontro conviviale di oggi, giovedì 21 novembre, del Milan Club Faenza (dalle 19.30 nella sede del Rione Verde di via Cavour 37) durante il quale presenterà il suo libro Il mio calcio eretico. Dai trionfi con il Milan al lavoro con i giovani (Piemme). Al termine della carriera da calciatore, infatti, Galli ne ha intrapresa una altrettanto importante nel settore giovanile, prima da allenatore e poi da responsabile (tra Milan, Figc e l’ultima parentesi nel Parma), diventando una piccola autorità in Italia tra gli addetti ai lavori (ne parla anche sul suo blog).
Filippo, cosa intende per “eretico”?
«Per il titolo del libro ho scelto una parola un po’ roboante per far capire che il calcio ha bisogno di competenze sempre nuove. Purtroppo in questo mondo si crede che basti aver giocato per poi poter insegnare calcio. E invece tra molti addetti ai lavori c’è davvero troppa ignoranza, manca la voglia di abbracciare qualcosa di nuovo. Bisogna aggiornarsi sempre, attraverso letture, facendo formazione, sperimentando».
Qual è la sua ricetta per far crescere il settore giovanile?
«Il nostro approccio – mio e del mio staff – è di tipo psico-sociale, si basa su studi comportamentali. Bisogna saper osservare i ragazzi; ognuno ha un canale di apprendimento suo e l’allenatore deve trasformarsi in un facilitatore, in grado di inserirli nella complessità di questo gioco».
C’è chi dice che c’è troppa tattica, nei settori giovanili…
«Per noi va allenato tutto insieme: la tattica e la tecnica, che deve essere funzionale allo spazio e al tempo. Dobbiamo allenare i ragazzi a prendere una scelta. Al momento invece, purtroppo, anche nel calcio giovanile si preferisce lavorare molto in palestra, sulla strutturazione, sull’atletismo».
Una scelta che porta poi le squadre prof ad avere in rosa quasi tutti giocatori nati nei primi mesi dell’anno…
«Questo è un grosso problema. Si tende a selezionare giocatori più pronti e quelli nati nei primi mesi spesso hanno di fatto un anno in più, sia dal punto di vista strutturale che cognitivo. Il problema è che si guarda troppo alla prestazione, gli osservatori in primis. È una conseguenza del “risultatismo” esasperato. Non voglio dire che noi non vogliamo vincere, ma bisogna ricercare il risultato attraverso un calcio formativo. Di possesso, di dominio, coraggioso. E non per un esercizio di stile. Sappiamo che la percentuale dei ragazzi che “arriva” è bassissima, ma se noi li mettiamo in condizione di apprendere nella maniera giusta, se li abituiamo a prendere delle scelte, alla responsabilità, dal punto di vista pedagogico trasmetteremo loro qualcosa di importante, comunque vada. Dobbiamo insegnare loro a essere proattivi, non solo reattivi, e questo può essere utile anche nella vita».
Qualche soddisfazione personale, da allenatore o responsabile di settore giovanile?
«Per quanto riguarda i giocatori, potrei citare tra gli altri Donnarumma, Locatelli, Calabria, Gabbia, Pobega, Daniel Maldini, ma magari sarebbero arrivati comunque, non vorrei prendermi il merito. Quello di cui invece sono orgoglioso è di aver portato, nel Milan in particolare, un nuovo approccio metodologico, direi scientifico, l’aver creato nuove professionalità, essere riuscito a far crescere il capitale umano. Al Milan gli allenatori e lo staff hanno imparato a lavorare in team, a confrontarsi, a relazionarsi; abbiamo portato “azienda” nel settore giovanile, a partire dalla formazione continua, con riunioni con 70 persone, che non si erano mai viste».
Inutile chiederle come è cambiato il calcio rispetto ai suoi tempi.
«Già: c’è più atletismo. Semplificando, forse, una volta se non avevi la tecnica non arrivavi a certi livelli, oggi puoi arrivarci lo stesso. È un calcio più veloce, gli atleti hanno più strumenti e mezzi per sfruttare dal punto di vista atletico tutto il loro potenziale. Fuori dal campo, invece, c’è molta più pressione, penso ai social, alle aspettative di famiglie e tifosi».
Qual è stato il suo particolare pregio, da calciatore?
«Probabilmente mi ha aiutato non avere alcun tipo di pressioni, non ho mai pensato che avrei fatto come lavoro il calciatore e sono arrivato al Milan tardi, a 17 anni. Poi mi riconosco una grande qualità, quella di non aver mai mollato nonostante gli infortuni. Ho affrontato sette operazioni grosse ma ho sempre pensato di poter tornare il giocatore che ero e credo che anche questo sia un aspetto del talento».
Qual è il momento che ricorda con più emozione della sua carriera?
«Naturalmente la finale di Coppa dei Campioni vinta contro il Barcellona nel 1994, anche perché ero titolare (Costacurta e Baresi erano squalificati, ndr) e se non avessimo vinto probabilmente nessuno si sarebbe ricordato delle altre 200 e rotte presenze con il Milan (ride, ndr). E poi ricordo con emozione anche la finale vinta cinque anni prima contro lo Steaua Bucarest, lo stadio (il Camp Nou di Barcellona, ndr) era impressionante, la gente sembrava riuscisse a muoverlo».
Quali sono i compagni più forti con cui ha giocato?
«Direi senza dubbio Van Basten. E poi Baresi e Maldini. Ci siamo anche rivisti da poco…».
E gli avversari?
«Ho giocato in un periodo in cui tutti i migliori erano in serie A, come la Premier League oggi, quindi è facile citare i più grandi: Maradona, Platini, Zico… Ma l’avversario che mi metteva più in difficoltà forse è un nome meno conosciuto: Casagrande (ex centravanti del Torino, ndr), aveva una grande protezione di palla».
Quale allenatore ricorda con più piacere?
«Ognuno mi ha dato qualcosa. Ma devo citare Arrigo Sacchi, per l’innovazione che ha portato dal punto di vista tattico»
