Split (di M. Night Shyamalan, 2017)
Non ho mai amato Shyamalan, regista americano di origini indiane che 18 anni fa debuttò con quel grande successo che fu Il sesto senso, per poi proseguire in un percorso piuttosto coerente dentro il genere dell’horror favolistico con Signs, Unbreakable e The Village, tre discreti successi. Ecco, di questi quattro non me ne è piaciuto neanche uno, nonostante il soggetto, ogni volta, attirasse la mia presenza in sala. Queste visioni mi hanno portato quindi a pensare in termini disastrosi del suo cinema, una commistione di generi in teoria accattivante ma che crollava sempre in fase di sceneggiatura, sempre banale, e di regia, fatta di inutili rallenty e di forzata ricerca del colpo di scena. Ma il ragazzo piaceva eccome, sia a pubblico che critica. Poi qualcosa si è rotto, e dal villaggio il buon Shyamalan non è più riuscito a uscirne, infilandosi in un oblio durato tredici anni e terminato con questo Split, campione d’incassi immediato e che riporta il regista di nuovo sotto i riflettori del cinema commerciale a cui ha sempre ammiccato. Split parla di un uomo che soffre di disturbi della personalità multipla, tanto che è capace di “trasformarsi” in ben 23 personaggi diversi; il rapimento da parte sua di tre ragazzine costituisce il motore di una storia che attraverso la conoscenza del protagonista, si intreccerà con la vicenda di una delle vittime. Il film parte abbastanza bene perché riesce a inquietare e a creare un po’ di tensione giusta per capire come possa evolversi la vicenda e per conoscere questo pazzesco personaggio interpretato in maniera straordinaria dallo scozzese James McAvoy. I problemi arrivano però presto, sia con la figura della psicologa, mal raccontata e banalmente rappresentata, e aumentano con i continui, inutili e pedanti flashback sull’infanzia della ragazza protagonista (la bella e brava Anya Taylor-Joy, già vista in The Witch: segnatevi questo nome, parola di critico!) che tolgono al film quel poco di tensione e concentrazione maturate. Nella seconda parte, poi, anche la figura del maniaco perde di interesse, degenerando verso la fine in uno sviluppo assurdo e involontariamente trash che non solo elimina ogni interesse per la trama, ma che scade anche in un comico involontario, lasciando in campo soltanto lo straordinario talento del suo attore, che di Oscar ne meriterebbe tre: uno per la bravura, uno per l’enorme versatilità, e uno per la pazienza. Ennesima occasione brutalmente sprecata dal regista e ultimo mio atto da spettatore per i suoi film: errare è umano, perseverare è diabolico, riprendere a farlo è da masochisti. Ma, attenzione, proprio come i suoi primi film, questo Split piacerà a più di qualcuno. In ogni caso, il film vale la pena per i suoi ultimi trenta secondi, che non dovete perdervi per nessun motivo e che non posso ovviamente svelare.
Green Room (di Jeremy Saulnier, 2015) Menzione breve speciale per questo bellissimo e inedito (anche in streaming, ahimè) thriller, veramente di un altro pianeta rispetto a Split. Un gruppo hardcore punk finisce a suonare in un locale di nazisti, che non prende bene un loro pezzo che li manda con forza a quel paese. In più nei camerini assistono a qualcosa che non dovevano vedere, e inizia un avvincente e straziante (in senso buono) corsa contro tempo e nazisti per uscire vivi dal locale. Uno dei migliori esercizi di tensione negli ultimi anni, con il defunto Anton Yelchin e la (già) grande Imogen Poots come protagonisti, che ci rivela lo straordinario talento di un regista da noi sconosciuto. Con la speranza di vederlo presto, segnatevi il suo nome, e procuratevi i sottotitoli italiani in rete.
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