Blink Twice (di Zoë Kravitz, 2024)
Ci sono film che nascono già con le luci della ribalta, perché l’esordio alla regia è di Zoë Kravitz, doppia figlia d’arte di Lenny e di Lisa Bonet (vi dice qualcosa I Robinson?) e attrice lanciatissima, in un genere che sembra ormai il nuovo terreno di caccia del cinema americano, quella black comedy a tinte horror che Jordan Peele ha reso magnificamente con Scappa – Get Out. E Blink Twice si specchia fedelmente nella cinematografia di questi anni, che da una parte strizza l’occhio a quel pubblico che vuole riconoscersi in una morale netta, ponendo però il tutto in una messinscena glamour, con l’isola tropicale, i corpi, il lusso e il mistero. Come appena scritto, il film parte da un’ambientazione che oggi fa quasi cliché, l’isola isolata dal resto del mondo, con inevitabili richiami a tantissimi film e serie isolane e isolate: un mondo indipendente, fatto di una libertà apparente che presto si trasforma in sopraffazione. Nulla di male a rifarsi a modelli esistenti, ma qui la sensazione è che la derivazione diventi dipendenza e si cerchi di attingere fino all’ultima goccia: la trama procede a colpi di déjà-vu, e lo spettatore, più che sorpreso, si ritrova a spuntare mentalmente le caselle di un gioco che conosce già.
Lo schema narrativo è manicheo: uomini cattivi, brutali, predatori; donne spaventate ma pronte alla riscossa, situazione ineccepibile nella teoria, banale nella pratica. Il rischio di semplificare una questione complessa come il potere e le sue dinamiche è quello di ridursi a un cartone animato morale, e il film cade proprio lì: non analizza, non problematizza, ma ribalta semplicemente i ruoli, con una scorciatoia narrativa che può inizialmente ammiccare, ma che lascia presto a desiderare. Eccessivo è l’aggettivo che meglio descrive Blink Twice: eccessivo nel sottolineare, nel ripetere, nel compiacersi. Le rivelazioni sono gestite da scene e simbolismi troppo iconici o didascalici, e i colpi di scena finiscono per essere prevedibili, quasi telefonati. La regia di Kravitz è corretta, ma acerba: si affida a una patina elegante e a una colonna sonora furbetta per mascherare la mancanza di vero ritmo e di profondità. In definitiva, un film che non so se abbia voluto osare davvero, che da una parte gioca sicuro e che vuole conquistare il pubblico, ma che dall’altra lo vuole stupire, ribaltare e con cui vuole giocare andando a fondo nell’estetica horror: piacevole per chi vuole farsi trascinare dalla contrapposizione netta tra buoni e cattivi, ma non sufficiente per chi cerca complessità e sfumature. Di certo, un esordio che farà parlare, ma che lascia il sospetto che la regista abbia strizzato l’occhio più ai trend del momento che a una vera urgenza artistica, narrativa e tematica. Più glamour che femminista, insomma… ma se cinematograficamente siete giovani dentro, provatelo, è in streaming.



