The Beatles – Eight Days a Week (di Ron Howard, 2016)
Il documentario racconta, in parole povere, di come i Beatles hanno conquistato il mondo: partendo dal periodo amburghese del 1962 già con Ringo Starr in formazione (evitando quindi gli inizi e come si sono formati), si narra l’irresistibile cavalcata del gruppo attraverso la serie assurda di concerti trionfali tenuti in tutto il mondo, fino a quando nel 1966 i quattro decisero di non suonare più dal vivo. Il titolo del film infatti riprende una loro canzone che con un briciolo di libertà si può tradurre con “tour de force”. La storia è nota a tutti, non solo ai fan: questi quattro ragazzi provenienti dalla classe operaia, grazie alle loro magnifiche canzoni e all’attenta produzione del lungimirante Brian Epstein, affiancato in seguito da George Martin, non solo conquistarono il mercato della musica mondiale, ma divennero il fenomeno più importante di un’epoca a tutti i livelli: arte, divertimento, costume, moda, gossip e aggiungete voi almeno altre cinque voci a caso. I concerti in tutto il mondo (Italia compresa) erano, per dirlo alla lettera, un grandissimo casino, visto che presto si scelsero gli stadi come scenario per motivi di capienza e ordine pubblico, senza che il mondo tecnologico fosse preparato (a livello di potenza di impianti) a un simile fenomeno. Ne conseguiva che ai concerti nessuno, loro compresi, sentiva altro che le urla di fan urlanti al posto della musica. E allora nel 1966 i Fab Four dissero basta esibizioni, basta fenomeni di costume, e iniziarono un percorso di consolidamento della posizione di band più sorprendente di tutti i tempi con un’ultima serie di dischi a dir poco eccezionali. Il documentario lascia fuori dalla porta i problemi interni del gruppo e dei singoli (come la tragica morte di Epstein) e racconta la vicenda attraverso le voci dei quattro protagonisti mixando in una sola opera interviste e immagini, alcune note, alcune inedite, alcune magnificamente ripulite e restaurate, come il simbolico concerto allo Shea Stadium di mezz’ora (in coda al film) che evidenzia palesemente quanto scritto sopra sulle esibizioni live. Ron Howard è un grande professionista, il lavoro è perfetto e molto godibili risultano alcune testimonianze di personaggi famosi sulla passione per il gruppo: se la dichiarazione di Sigourney Weaver sulla sua presenza a un concerto desta sorrisi compiaciuti, è la testimonianza di Whoopi Goldberg sul rapporto tra i Beatles e l’America razzista, a colpire nel segno. Una giusta e comprensibile celebrazione, una confezione perfetta, un documentario che risulta essere una chicca per i fan e una piacevole scoperta per i giovanissimi che non conoscono bene il fenomeno in questione. Io sono uscito di sala felice e deluso. Felice per tutto ciò che ho scritto fin qui, deluso perché avrei voluto tante cose che non sono successe: materiale sul secondo periodo a noi meno noto, più controverso e più oggetto di documentario; più introspezione nei singoli e maggiori criticità nel rapporto tra i membri del gruppo, cosa improbabile visto che la storia è narrata da Paul e Ringo; più analisi delle canzoni e della loro poesia; infine sapere definitivamente che Paul McCartney è lui e non un sosia! (Per chi non conosce la vicenda, scrivere “McCartney sosia” nei motori di ricerca). Eight Days a Week non soddisfa le mie presunzioni, per una volta da cinemusicofilo insopportabile e lezioso, ma mostra in tutto il suo splendore due ore di parole, musica, concerti e soprattutto di storia. Più che un documentario, una festa. Giusto così.
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