Dept. Q (miniserie, 9 episodi, Stagione 1)
In questi ultimi tempi si è assistito a un moltiplicarsi di serie crime, un genere a me molto caro, che finisce per mettere a rischio la qualità delle stesse. Alcune di queste, ne parleremo nelle prossime settimane, sono entrate da un orecchio e uscite dall’altro, divorate dalla banalità, mentre mi ha colpito particolarmente Dept Q, una serie scozzese, tratta però da una serie di romanzi di matrice danese, qui poco conosciuti. La serie riesce, almeno in parte, a uscire dal cliché, grazie soprattutto al suo carismatico protagonista Carl (e al fantastico Matthew Goode), un poliziotto misantropo, disilluso e tra l’altro vittima di un attentato. Gli viene affiancato un (inizialmente) improbabile immigrato siriano, dall’aspetto un po’ buffo (un mix, 80% D’Alema, 20% Pif), che si rivelerà presto un braccio destro indispensabile, un Groucho esotico, per chi ricorda i fumetti di Dylan Dog, che l’autore però non credo conosca.
Questi due protagonisti funzionano da subito come una coppia di personaggi iconici, complementari e perfettamente dosati: il primo più ombroso e metodico, il secondo più empatico e istintivo. A completare l’empatico trio, la poliziotta Moira. La trama del caso centrale è costruita con intelligenza, senza troppi colpi di scena impossibili che normalmente si alternano una decina di volte negli ultimi minuti dell’ultimo episodio; qui siamo nel territorio del verosimile, e questo è forse il pregio maggiore della serie. Certo, non tutto fila liscio: le scene ambientate nella cosiddetta “prigione” (chi ha visto sa) si trascinano a lungo, e lo spettatore rischia di guardare l’orologio chiedendosi se davvero servisse tanto tempo per narrare la vita del prigioniero (anche se alla fine i conti tornano). Ma la (perdonabile) debolezza maggiore è costituita dall’ennesimo poliziotto con problemi familiari: possibile che non si riesca a concepire un investigatore senza un dramma domestico alle spalle? Sarebbe quasi rivoluzionario proporre un detective con una vita privata normale, magari pure felice, ma evidentemente la serialità contemporanea non osa tanto.
A bilanciare questi difetti c’è però un comparto tecnico molto curato: le musiche sono azzeccate, con un tema d’apertura che ti resta in testa, e la regia è pulita, le atmosfere sono coerenti, e soprattutto la serie non si perde in virtuosismi inutili: lascia spazio ai personaggi, che sono la vera forza motrice del racconto. Il risultato è un prodotto solido, che non rivoluziona il genere ma lo interpreta con intelligenza. E, sorpresa non da poco, quando arriva la notizia di una seconda stagione non si prova il solito brivido di stanchezza e timore, ma un sincero piacere. Se il livello rimarrà questo, ci sarà davvero da attendere con curiosità il prossimo caso di questo tanto, almeno inizialmente, bistrattato dipartimento.