«L’architettura del calcolo, dell’audacia temeraria e della semplicità»

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Cáceres (Estremadura, Spagna), Zona industriale Aldea Moret, magazzino per fertilizzanti cosiddetto “Embarcadero”, 1957, recupero a cura degli architetti Fuensanta Nieto e Enrique Sobejano, 2006-2007, foto Roland Halbe

«Noi […] canteremo il vibrante fervore notturno
degli arsenali e dei cantieri,
incendiati da violente lune elettriche […]
le officine appese alle nuvole
per i contorti fili dei loro fumi»

Filippo Tommaso Marinetti,
Manifesto del Futurismo,
in “Le Figaro”, 20 febbraio 1909

Form follow Function: la forma segue la funzione. Mai come nel caso dei “paraboloidi” (o più esattamente dei “cilindri parabolici”) questo caposaldo proverbiale dell’architettura contemporanea, coniato da Louis H. Sullivan1 (o forse da un suo socio di studio), calza nella maniera più perfetta. Le pareti inclinate di 38° circa di questi magazzini per lo stoccaggio d’inerti “accompagnano”, infatti, la naturale conformazione di materiali che si sedimentano in forma conica, evitando così le pericolose spinte che s’innescherebbero nel caso le pareti fossero verticali (come nei precedenti magazzini a forma “basilicale”). Anche se, va detto, probabilmente i primi paraboloidi non furono pensati per l’industria, bensì per la custodia dei dirigibili, come dimostrano i due hangar di Orly, del 1923-1924, capolavori d’ingegneria cementizia armata, progettati da Eugène Freyssinet e malauguratamente distrutti dai bombardamenti della Seconda guerra mondiale.

Fabbrica Mantovana di Concimi Chimici, magazzino per fertilizzanti, ingegner Alberto Minghetti, 1952, foto Marcello Modica, 2014

Come che sia, queste “cattedrali” del XX secolo incarnano, assieme alle torri di raffreddamento, anch’esse strutture appartenenti alla stessa famiglia dei paraboloidi – le “coniche” –, le forme dell’immaginario industriale del Novecento, suscitando l’ammirazione sconfinata, dopo il grandioso incipit del futurismo italiano (Sant’Elia canta «la bellezza nuova del cemento e del ferro»2), in alcuni dei più importanti teorici e architetti del cosiddetto “Movimento Moderno”: Tony Garnier,3 Hermann Muthesius,4 Le Corbusier5 e Walter Gropius, in particolare. A queste forme s’ispireranno, oltre a questi nomi appena citati, molti dei maggiori progettisti del secolo appena trascorso: Robert Maillart, Pier Luigi Nervi, Richard Buckminster Fuller, Ivan Leonidov, Felix Candela (maestro insuperato dei paraboloidi iperbolici), Paolo Soleri. Molti, anche, sono stati gli architetti che si sono esercitati nella progettazione di vere e proprie fabbriche: da Peter Behrens (fabbrica di Turbine, fabbrica di piccoli motori, stabilimento dei materiali per l’alta tensione, sala di montaggio per grandi macchine per l’AEG di Berlino-Moabit, fabbrica del gas e fabbrica Hoechst IG Farben a Francoforte sul Meno, 1911 e 1920-1924), ad Hans Poelzig (fabbrica di prodotti chimici Moritz Milch & Co. a Luban (Polonia), 1911-1912 e i magnifici progetti, quasi tutti non realizzati, delle Torri dell’acqua), a Walter Gropius (fabbrica Fagus, Alfed an der Leine (Bassa Sassonia), 1911-1913 e fabbrica modello, con Adolf Meyer, all’Esposizione del Werkbund a Colonia del 1914), a Eric Mendelshon (Hut Fabrik – cappellificio Friedrich Steinberg, Herrmann & Co. – a Luckenwalde (Brandeburgo), 1919-1920 e fabbrica tessile Krasnoye Znamya – “Bandiera rossa” – di San Pietroburgo, 1926), agli architetti italiani (Figini e Pollini, 1934-1957 e Eduardo Vittoria, 1956) che hanno ideato i successivi ampliamenti dell’Olivetti a Ivrea, fino ad Alvaro Siza che ha firmato la fabbrica della Vitra a Weil-am-Rhein.
Alla fine del XIX secolo, appare chiaro come ingegnere e architetto abbiano ormai preso due strade divergenti: quello della ricerca di nuove forme per nuovi materiali, il primo, quello di una posizione di “retroguardia” formalistica e accademica, il secondo. Ecco perché gli architetti del nuovo secolo, il secolo del Moderno, guardano ai primi come modelli da seguire. Forse il primo ad aver individuato nell’ingegnere la figura dell’uomo, al tempo stesso, antico e attuale, è stato Adolf Loos: «C’è ancora, nel nostro tempo, qualcuno che lavora alla maniera dei Greci? Oh sì! Gli Inglesi come popolo, gli ingegneri come categoria. Gli Inglesi, gli ingegneri sono i Greci dei giorni nostri. A loro dobbiamo la nostra cultura. Essi sono gli uomini perfetti del diciannovesimo secolo… I vasi greci sono belli come bella è una macchina».6 Curioso che, qualche anno più tardi, in Vers une architecture, Le Corbusier metta a confronto il Partenone e l’automobile, benché il passo da Loos a «une maison est une machine à habiter» non sia affatto breve; ma questa sarebbe un’altra storia, Loos non essendo affatto un mero “anticipatore” del Movimento Moderno.7
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Pasquasia (Enna), miniera di sali potassici misti di Pasquasia-Corvillo (ISPEA-Italkali), magazzino “solfato”, 1969, foto Marcello Modica, 2011

Questa vicenda, che vede Le Corbusier in prima fila – «GLI INGEGNERI AMERICANI SCHIACCIANO COI LORO CALCOLI L’ARCHITETTURA AGONIZZANTE»8 –, è stata raccontata, come soltanto lui poteva fare, da Reyner Banham, lo storico dell’architettura più anticonformista ed uno dei più acuti del secolo scorso, in numerosi articoli,9 nella sua tesi di dottorato10 e infine nel suo libro A Concrete Atlantis: US Industrial Building and European Modern Architecture del 1989.11 Che poi questi architetti innamorati delle forme industriali e dell’estetica della macchina – primi fra tutti gli architetti del Costruttivismo sovietico e poi, in una versione assai più ludica, gli “eroi” delle Megastrutture degli anni Sessanta e Settanta – abbiamo col tempo compreso che non bastava rifare queste forme per ottenere automaticamente un modello di Modernità, è altrettanto vero.
Tornando ai paraboloidi, cosa ci dicono, oggi, questi grandi contenitori? Che la forma può seguire la funzione, ma, ciononostante, essa va oltre la mera “traduzione” di una necessità pratica, realizzando forme di “platonica” bellezza che ci sanno parlare anche dopo che la loro “funzione” è caduta in disuso.Archeologia Industrialejpg04

 Tortona (Alessandria), Monopoli di Stato, magazzini del sale, ingegner Pier Luigi Nervi, 1950-1951, foto Marcello Modica, 2013

Il paragone con le cattedrali non è affatto peregrino e buttato lì.12 Delle grandi chiese gotiche, questi semplici magazzini conservano l’aspetto luministico, coi tagli di luce che provengono dalle finestre en longuer (siano esse parallele alle pareti o collocate lungo la curvatura dell’arco). Chi ha avuto la fortuna di entrare in uno di questi grandi spazi vuoti si è reso conto della qualità della luce che ne illumina gl’interni con effetti scenografici (che ne farebbero luoghi deputati alle rappresentazioni del teatro contemporaneo).
Ecco perché questo primo censimento sui paraboloidi italiani condotto da Marcello Modica e da Francesca Santarella è un lavoro importante che finalmente fa il punto su queste moderne cattedrali del lavoro. Un lavoro analogo sarebbe augurabile anche sulle torri di raffreddamento dismesse, anche se, per quanto riguarda queste ultime, non si ritrova certamente la varietà di forme e di tipologie presenti nei magazzini con copertura a volta parabolica. Qualunque ipotesi di conservazione di questi manufatti presuppone innanzitutto la loro catalogazione e la conoscenza dello stato di fatto. E questo volume – così ben illustrato dalle fotografie di Modica – permette la conoscenza, per la prima volta, di quest’importante e diffuso patrimonio architettonico.

Prato, Opificio tessile Campolmi, tintoria, anni ’50, recupero a cura dell’architetto Marco Mattei, 2009, foto Marco Mattei

Si dirà: conoscere non vuol dire automaticamente conservare. Allo stesso modo non significa sapere sempre cosa fare di questi giganti svuotati dalle loro funzioni di contenitori di materiali inerti (a granuli o in polvere).13 Questo lo sappiamo bene. Ma già un’iniziativa editoriale di questo livello permetterà, ce lo auguriamo, d’impedire, con maggior speranza di successo (o minor speranza d’insuccesso), il rischio, sempre in agguato, delle demolizioni.
Si raccoglierà, in tal modo, l’eredità di Eugenio Battisti, primo in Italia a capire l’importanza di quelli che lui chiama «i grandi mostri della meccanizzazione»,14 ma “mostri” solo «per la loro dimensione, non per le qualità, anche di stile, che presentano e che ormai si possono apprezzare, con equità, da due opposti versanti: entrando dentro, là dove sopravvivono impalcature metalliche, capannoni a vista, macchine ed attrezzi, e tutelandoli come il tesoro nostrano di quella civiltà industriale, cui si devono forse i massimi capolavori di strutture architettoniche pure più suggestive che in qualsiasi quartiere creato dallo stile internazionale»; nonché «relitti» della civiltà industriale, dalla spazialità disponibile a nuovi utilizzi in quanto l’architettura industriale «richiede spazi interni il più possibile aperti e sgombri, quindi esclude tramezzi, celle, corridoi, tutta quella camicia di forza che il ricalco, insensato, delle piante obsolete dei palazzi barocchi ha introdotto nelle abitazioni piccolo borghesi ed operaie. Cioè spalancando le porte, si hanno spazi immensi, liberi, da trasformare e da adattare con sistemazioni che saranno per forza sempre provvisorie: scuole […], sale da conferenza, palestre coperte, piscine, padiglioni per esposizioni, mercati artigiani o nuove industrie».15 Non soltanto questo, però. Salvare queste testimonianze è, per Battisti, «una delle migliori forme di riconoscenza e di rispetto per l’immane piattaforma di sforzi, fatica, ingegnosità su cui il nostro facilitato e pigro benessere è fondato».16 Sapendo quanto labile è questo benessere. Essendo ben consapevoli, anche, che questo specifico patrimonio culturale, più di qualunque altro pervenutoci, «non è mai un documento della cultura senza essere insieme un documento della barbarie».17

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Ravenna, Società Interconsorziale Romagnola (SIR), magazzino per fertilizzanti, ingegner Elio Segala, 1956-1957, foto Stefano Barzizza, 2014

Magazzino deriva dall’arabo “Machsan” (o “Al-Machsan”), che significa luogo da riporre e custodire, ma anche tesoro e celliere. Un luogo, dunque, ospitale e protettivo. Speriamo di essere all’altezza di questi luoghi dell’accoglienza, salvandoli dall’abbandono (che spesso, però, ha permesso la loro sopravvivenza e il mantenimento della loro autenticità), attribuendo loro nuove funzioni, rispettose dei loro grandiosi spazi, che permettano loro di sopravvivere a questi nostri tempi difficili (chi l’avrebbe detto che sarebbe tornato di moda Dickens?).
Speriamo, soprattutto, che la parabola dei paraboloidi non sia discendente, ma punti decisamente verso l’alto.

«[…] nell’idea di felicità risuona ineliminabile l’idea di redenzione. Ed è lo stesso per l’idea che la storia ha del passato. Il passato reca con sé un indice segreto che lo rinvia alla redenzione. Non sfiora forse anche noi un soffio dell’aria che spirava attorno a quelli prima di noi? Non c’è, nelle voci cui prestiamo ascolto, un’eco di voci ora mute? […] Se è così, allora esiste un appuntamento misterioso tra le generazioni che sono state e la nostra. Allora noi siamo stati attesi sulla terra. Allora a noi, come a ogni generazione che fu prima di noi, è stata consegnata una debole forza messianica, a cui il passato ha diritto. Questo diritto non si può eludere a poco prezzo».18

Note

* Si tratta della Prefazione al volume di Marcello Modica, Francesca Santarella, Paraboloidi. Un patrimonio dimenticato dell’architettura moderna, prefazione di Alberto Giorgio Cassani, scritti di Ivanoe Balatroni et alii, Firenze, Edifir Edizioni, 2014, pp. 9-13.
1. The Tall Office Building Artistically Considered, in «Lippincott’s Magazine», LVII, marzo 1896, pp. 403-409.
2. Antonio Sant’Elia, L’architettura futurista: Manifesto, foglio volante, Milano, 11 luglio 1914, poi in «Lacerba», II, n. 15, pp. 228-231: 228.
3. Une cité industrielle: Étude pour la construction des villes, Paris, Massin & Cie, 1917, 2 voll.
4. Come sottolinea Reyner Banham in Theory and Design in the first machine Age, London, The Architectural Press, 1960, trad. it. di Enrica Labò, Architettura della prima età della macchina, Bologna, Calderini, 1970, pp. 61 sgg. (nuova edizione a cura di Marco Biraghi, traduzione di Sandra Montagner, Milano, Christian Marinotti, 2005).
5. Vers une architecture, Paris, G. Cres, 1923, trad. it. di Pierluigi Cerri, Pierluigi Nicolin e Carlo Fioroni, Verso una architettura, a cura di Pierluigi Cerri e Pierluigi Nicolin, Milano, Longanesi & C., 1973, 1986, 19987.
6. Adolf Loos, Vetro e argilla [26 giugno 1898], in ID., Ins Leere gesprochen; Trotzdem, Wien-München,Verlag Herold, 1962, trad. it. di Sonia Gessner, Parole nel vuoto, Milano, Adelphi, 1972, 19802, pp. 41-47: 43.
7. Ludwig Wittgenstein: «Chi è soltanto in anticipo sul proprio tempo, dal suo tempo sarà raggiunto», Vermischte Bemerkungen, herausgegeben von Georg Henrik von Wright, Frankfurt am Mein, Suhrkamp, 1977, trad. it. di Michele Ranchetti, Pensieri diversi, a cura di Georg Henrik von Wright con la collaborazione di Heikki Nyman, edizione italiana a cura di Michele Ranchetti, Milano, Adelphi, 1980, p. 28. Cfr. Massimo Cacciari, Adolf Loos e il suo Angelo – Adolf Loos, Das Andere / L’Altro – Festschrift: Per i sessant’anni di Adolf Loos, Milano, Electa, 1981 (ora: Adolf Loos e il suo Angelo: «Das Andere» e altri scritti, Milano, Electa, 2002).
8. Vers une architecture, ed. cit., p. 20; e ancora: «Non seguendo un criterio architettonico, ma semplicemente guidati dalle necessità di un programma imperativo, gli ingegneri d’oggi si impadroniscono degli elementi che generano e fanno risaltare i volumi; essi mostrano la via e creano fatti plastici, chiari e limpidi che appagano lo sguardo e infondono allo spirito la gioia della geometria. Tali sono le fabbriche, primizie rassicuranti dei tempi nuovi», ibid., pp. 28-29. Si veda anche Ludwig Hilberseimer, Groszstadt Architektur, Stuttgart, Julius Hoffmann Verlag, 1927, trad. it. di Bianca Spagnuolo Vigorita, Groszstadt Architektur: L’architettura della grande città, Napoli, Clean, 1981, in particolare pp. 90-98.
9. Si vedano, per tutti, quelli, magistrali, raccolti nell’antologia Architettura della Seconda Età della Macchina: Scritti 1955-1988, a cura di Marco Biraghi, Milano, Electa, 2004.
10. Il già citato Theory and Design in the first machine Age.
11. Edito a Cambridge (Mass.) dalla MIT Press, trad. it. di Emma Ansovini, L’Atlantide di cemento: Edifici industriali americani e architettura moderna europea, 1900-1925, Roma-Bari, Laterza, 1990.
12. È lo stesso Le Corbusier a paragonare gli hangar di Orly a Notre-Dame: «Concezione e costruzione di Freyssinet e Limousin. Larghezza ottanta metri, altezza cinquanta metri, lunghezza trecento metri. La navata di Notre-Dame misura dodici metri di larghezza e trentacinque metri di altezza», Vers une architecture, ed. cit., p. 240, didascalia.
13. Ricordiamo il monito di Walter Benjamin: «Che valore ha […] l’intero patrimonio culturale, se proprio l’esperienza non ci congiunge a esso?», Erfahrung und Armut, in «De Welt im Wort», I, n. 10, 7 dicembre 1933, trad. it. di Fabrizio Desideri, Esperienza e povertà, in Walter Benjamin, Opere complete, vol. V: Scritti 1932-1933, a cura di Rolf Tiedemann e Hermann Schweppenhäuser, edizione italiana a cura di Enrico Ganni con la collaborazione di Hellmut Riediger, Torino, Giulio Einaudi Editore, 2003, pp. 539-544: 540.
14. Eugenio Battisti, Perché l’archeologia industriale, in «Archeologia industriale: Centro di documentazione e di ricerca», Bollettino n. 1, marzo 1977, in occasione del Convegno di Archeologia Industriale, Milano, 24, 25, 26 giugno 1977, pp. 3-6: 3.
15. Eugenio Battisti, Il fascino dell’archeologia industriale, in «Italia Nostra», n. 158, 1978, pp. 42-46, ed. cons. in Id., Archeologia industriale: Architettura, lavoro, tecnologia, economia e la vera rivoluzione industriale, a cura di Francesco Maria Battisti, prefazione di Paolo Galluzzi, con i contributi di Aldo Castellano, Ornella Selvafolta, Milano, Jaca Book, 2001, pp. 35-40: 36.
16. Eugenio Battisti, Archeologia industriale: questioni di metodo, in Franco Feliciani, Giuseppe La Spada, Walter Pellegrini, Archeologia industriale in Abruzzo, con interventi di Eugenio Battisti et alii, s.l., s.n., [L’Aquila, Stabilimento litografico Gran Sasso], 1985, ed. cons. in Eugenio Battisti, Archeologia industriale…, cit., pp. 41-50: 49.
17. Walter Benjamin, Über den Begriff der Geschichte, in Walter Benjamin zum Gedächtnis, [Edited by] Institut für Sozialforschung, Los Angeles, 1942, pp. 1-16, trad. it. di Gianfranco Bonola e Michele Ranchetti, Sul concetto di storia, in Walter Benjamin, Opere complete, vol. VII: Scritti 1938-1940, a cura di Rolf Tiedemann e Hermann Schweppenhäuser, edizione italiana a cura di Enrico Ganni con la collaborazione di Hellmut Riediger, Torino, Giulio Einaudi Editore, 2006, pp. 483-493: 486.
18. Ibid., pp. 483-484.

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