Public Art, creazione condivisa in spazi comuni

Le opere provocatorie, fra etica, politica, antagonismo sociale e anticapitalista, di Kruger, Holzer, Cosuth, Beyeus, Kaprow, Stalker

Jenny Holzer, proiezioni a Venezia, 2003

Pensando al momento di maggiore impegno sociale e pubblico dell’arte vengono per lo più in mente alcuni lavori realizzati negli anni Sessanta e Settanta, quando gli artisti spesso condividevano con i giovani di tutto il mondo le lotte per la pace e i diritti civili: già progressivamente smaterializzata e sottratta al mercato come alle gallerie grazie alle tendenze della Body Art, Land Art, Arte concettuale e performativa, retrospettivamente si è stabilito di utilizzare il termine di Public Art (Arte pubblica) per indicare una serie di manifestazioni, azioni e opere d’arte che tendenzialmente nascevano per e negli spazi pubblici, col fine più o meno esplicito di ristabilire e stimolare i valori della socialità e della condivisione mediante la partecipazione degli spettatori, talvolta coinvolti anche involontariamente.
Se il termine “pubblico” ha una lunga e problematica storia alle spalle, conviene far chiarezza che qui si intende parlare di uno spazio fisico e non delle piattaforme virtuali dei social o dei media. Criticato aspramente dal movimento femminista negli anni ‘70 che vedeva nella netta separazione fra spazio pubblico e privato la possibilità per il Potere di far collassare qualsiasi istanza politica nel silenzio delle camerette di casa, la definizione dello spazio pubblico ha continuato a ricevere critiche anche più recenti. Habermas ad esempio lo considera ormai inesistente in quanto avrebbe perduto la sua funzione di comunicazione e di crescita trasformandosi oggi in un palco, al quale il pubblico mostra un sostanziale disinteresse. Ma se si considera come criterio la percezione pubblica e gli effetti di numerose opere degli artisti nel corso di questi ultimi 50 anni, potremmo dire che gli spazi in comune ancora esistono, mantengono caratteristiche di accessibilità e sono ancora in grado di favorire le dinamiche relazionali fra gli umani.
Un artista concettuale come Joseph Kosuth ad esempio pensava che l’arte fosse una sorta di pratica filosofica e che possedesse il compito di offrire significati alla società: la sua Second Investigation (dal 1968) utilizzava mezzi di comunicazione pubblici e anonimi per concentrarsi sulla produzione di senso da parte dell’oggetto d’arte fuori da un contesto legittimante come quello di una galleria o delle riviste di arte. Produrre frasi da inserire nei cartelloni pubblicitari rispondeva alla necessità di separare l’evento dalla forma fisica dell’opera, rinunciando al valore che generalmente viene determinato alla nascita ad esempio di un quadro. Kosuth, come tutta la sua generazione, cercava di porre sotto critica ogni forma di istituzionalizzazione o di autoreferenzialità dell’arte, il suo essere tendenzialmente un linguaggio di élite. L’uso degli organi della cultura di massa (riviste, giornali, cartelloni pubblicitari, volantini, spot televisivi), privo però dello scopo pubblicitario, veicolava quindi annunci anonimi basati su una voce isolata, capace di immettere nel mondo dei frammenti. L’effetto non era la produzione di arte ma l’analisi dell’essenza e dei limiti del contesto, del linguaggio, della cornice istituzionale, della ricezione del lavoro artistico da parte del pubblico.

Dai primi esperimenti di Kosuth, negli anni successivi l’utilizzo degli spazi di comunicazione generalmente associati alla pubblicità è diventato una pratica abbastanza comune da parte di numerosi artisti in tutto il mondo. Barbara Kruger e Jenny Holzer, entrambe artiste concettuali statunitensi, hanno usato i caratteri a stampa come parte preponderante del loro lavoro che viene proiettato su spazi tridimensionali o comunicato attraverso messaggi pubblici. Alcune volte questi sono semplici e brevi, altre volte sono citazioni o estrapolazioni da testi di autori famosi: in entrambi i casi, le due artiste tendono ad esplorare le nozioni di consumismo e di comunicazione mediatica.
“Compro dunque sono” è una delle massime più famose di Barbara Kruger (1945), che accompagna le proprie scritte da inserirsi in spazi commerciali a grandi dimensioni con immagini fotografiche spaventose, quasi pulp. Il lavoro, iniziato verso la fine degli anni ‘70, predilige per le scritte il bianco e nero con alcuni inserimenti di rosso, e immagini di nuovo rigorosamente in bianco e nero estrapolate dalle riviste degli anni ‘40-’50. Il lavoro consiste in brevi comunicazioni (“non abbiamo bisogno di altri eroi”, “credere+dubitare=essere sani”, “non essere un idiota”, “odia come noi”) che utilizzano le modalità impositive e aggressive della pubblicità ribaltandone il senso. Queste ricerche sui modi apparentemente innocui ma potenzialmente insidiosi in cui messaggi ideologici si infiltrano nella vita di ogni giorno grazie ai mass media continuano ancora oggi, sebbene l’artista abbia più recentemente espanso il proprio repertorio fino ad includere installazioni con video e componenti audio e sculture a grandi dimensioni. L’interesse attivo verso il femminismo e la teoria critica di cui il lavoro è permeato non ha tolto smalto a numerose delle sue opere che rimangono ancora fortemente attuali.
L’altra statunitense, Jenny Holzer (1950), proietta le proprie frasi almeno dal 1978, quando esegue le prime uscite della serie Truism, pensate sul tema dei pregiudizi e delle credenze collettive. Indirizzati non tanto al pubblico dell’arte ma a spettatori casuali, si tratta di frasi decontestualizzate, scelte in modo da sorprendere chi le legge, illuminare o attivare domande in chi le guarda. Nel migliore dei casi lo spettatore è stimolato a decostruire il senso della frase o a rapportarlo alla propria esperienza di pensiero e di vita.

In questo senso il suo lavoro – presentato sulle pareti della città e negli spazi pubblici di grandi dimensioni o nelle cabine dei telefoni pubblici – può essere definito anche come Street Art, indirizzata ad un fine politico in quanto esprime la volontà dell’artista di rompere le strutture sociali e politiche consuete. Il mezzo del computer diventa un componente importante del suo lavoro nel 1982, quando nove dei suoi “Truisms” vengono proiettati a intervalli di 40 secondi nello spazio pubblicitario gigante in Times Square a New York: l’uso dei LED permette all’artista di combinare una conoscenza della semantica alle moderne tecnologie pubblicitarie. Nel 1994 produce invece la serie Lustmord, che indica insieme l’omicidio e l’abuso sessuale: l’urgenza di assumere una posizione responsabile sulle violenze sulle donne durante la guerra in Bosnia allora in corso (le fonti ufficiali contano almeno 60.000 stupri alla fine del conflitto) porta Holzer ad analizzare le testimonianze delle violenze raccolte dall’Onu e da Amnesty International e a dare consistenza alla propria affermazione “Where women die, I am awide awake“. Singole frasi – “Il suo colore là dove lei è sottosopra. È abbastanza perchè io la uccida”, “Prendo la sua faccia con i bei capelli. Posiziono la sua bocca”, “Lei mi sorride perchè pensa che possa aiutarla” – vengono scritte ad inchiostro su corpi femminili, interpretati come luogo della violenza, dell’abuso e della denuncia in modo da riportare le espressioni pronunciate dalla prospettiva del colpevole, della vittima e del testimone. Lustmord è stato successivamente esposto in versioni diverse: come installazione luminosa tridimensionale a Bergen (1994) e come scritte al neon presso il monumento della battaglia di Lipsia (1996). Più recentemente, nel 2005 l’artista ha presentato For the City, una serie di proiezioni luminose sul Rockfeller Center, la Bobst Library, l’università e la Biblioteca pubblica di New York, utilizzando testi presi da contesti differenti come dei passaggi estrapolati da documenti desecretati dell’esercito USA durante la guerra in Iraq.
Oltre all’utilizzo degli spazi pubblici e del linguaggio comunicativo pubblicitario, la Public Art fin dalle sue origini prende a prestito anche dalla performance, da cui si differenzia per l’intento dichiaratamente politico e coinvolgente nei confronti del pubblico. Nel 1967 fu Claes Oldenburg a commissionare a tre becchini lo scavo di una buca grande come una tomba in Central Park, ricoperta poche ore dopo. L’azione – documentata mediante un film girato dallo stesso artista – mirava a far prendere coscienza sulla realtà fisica della morte in un contesto come quello contemporaneo della guerra in Vietnam.
Solo dall’inizio degli anni ‘90, l’esposizione in un’area pubblica è diventato un criterio meno importante per la Public Art, che si è orientata a privilegiare la relazione e l’intervento del pubblico. Non si tratta della prima volta che l’arte ha dato questa priorità, in quanto si hanno già alcuni esempi precedenti nelle azioni performative del gruppo internazionale di Fluxus – a cui aderivano Joseph Beuys e Yoko Ono – che fin dagli anni ‘60 in alcune azioni cercava un confronto e la partecipazione diretta dello spettatore.

Nasce così la New Genre Public Art, che si basa sull’idea della condivisione di una pratica col pubblico, percepito non come spettatore passivo. L’opera diventa quindi il frutto della partecipazione collettiva e non più espressione del singolo artista, così come il processo creativo una pratica del tutto condivisa fra artista e pubblico. Il termine inglese è stato coniato per la prima volta nel 1991 dall’artista e scrittrice statunitense Suzanne Lacy per definire questo tipo di lavoro negli USA. L’esperienza anticipatoria fu un’azione di Lacy del 1987, intitolata The Crystal Quilt, in cui 430 donne del Minnesota – di un’età superiore ai 60 anni – furono chiamate a condividere il loro punto di vista sul processo di invecchiamento, soprattutto su come le anziane vengono rappresentate nell’opinione pubblica e nei media. Le donne invitate dovevano sedersi a tavoli con coperte colorate mentre alcuni altoparlanti mescolavano osservazioni personali e ricordi di altre donne sul potenziale inutilizzato della vecchiaia. Ad intervalli di 10 minuti, un suono avvisava le convenute di cambiare la posizione delle loro mani sul tavolo, in modo da modificare l’assetto totale dei tavoli.
In Italia il termine che si è diffuso per indicare questo tipo di lavoro è Arte relazionale, una pratica che si basa sul medesimo rapporto fra opera e pubblico. Fra gli artisti che operano in tal senso va ricordato il collettivo interdisciplinare Stalker che si autodefinisce come un soggetto impegnato sugli spazi urbani vuoti, periferici, in trasformazione, i cosiddetti “Territori attuali”. Nel 1995 il gruppo utilizza la pratica del cammino per mappare fisicamente la città di Roma, nei suoi pieni e vuoti, prevedendo un giro che passa per le periferie e gli spazi privi di funzione. Il risultato finale dei quattro giorni di cammino restituisce una rappresentazione grafica distorta di Roma che evidenzia l’eccessiva urbanizzazione e la relazione fra vita e spazi.
Anche il collettivo catanese Canecapovolto propone l’analisi di una passeggiata come studio di nuove sensazioni stranianti mentre il progetto Progetto per un viaggio psichico nel ventre della città prevede l’ascolto individuale dello stesso racconto da parte di 15 persone tramite auricolari. Le persone devono muoversi in uno stesso spazio secondo alcune istruzioni determinate, ma il cui senso può essere liberamente interpretato. Le indicazioni portano quindi ad azioni modificate da ogni singola persona in relazione al proprio vissuto del momento, a dover relazionarsi con persone sconosciute, ad effettuare telefonate, interagire o seguirne altre, con l’unico vincolo di ascoltare i 40 minuti dell’audio. L’azione indicativamente ricorda le performances libere e impreviste dei Surrealisti, che giustamente pensavano che l’azione più eversiva di ogni essere umano fosse la libertà della propria immaginazione e la partecipazione diretta all’azione creativa.

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