Con passo leggero sull’acqua

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Vista dei fiumi uniti dalla chiusa di San Marco

Il carattere «insostituibile» dell’acqua significa che l’insieme di una comunità umana, ed ogni suo membro, deve avere il diritto di accesso all’acqua, e in particolare, all’acqua potabile, nella quantità e qualità necessarie indispensabili alla vita e alle attività economiche. La Dichiarazione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, del 2000, stabiliva, tra gli obiettivi, quello di dimezzare entro il 2015 la percentuale di popolazione mondiale che non ha accesso a un’acqua veramente potabile e ai servizi sanitari di base come la rete fognaria. Quando si parla di acqua, vi sono però profonde divergenze sulle strategie da adottare. Oltre alla questione della privatizzazione, e alla nascita delle grandi multinazionali dell’acqua, i pareri divergono anche sull’utilità delle grandi dighe per governare il corso dei fiumi e creare riserve da usare anche a fini energetici; come pure sui modi migliori per amministrare l’acqua per l’irrigazione. L’innovazione tecnologica sta fornendo nuove soluzioni. A mio avviso, l’acqua non può che appartenere all’economia dei beni comuni e della distribuzione della ricchezza e non all’economia privata. La politica ambientale comunitaria ha prodotto riguardo al tema dell’acqua una vasta legislazione e indica la realizzazione a breve di diversi obiettivi che si possono così riassumere:
– stabilire una politica integrata della gestione delle risorse idriche;
– proteggere e migliorare la qualità degli ecosistemi acquatici;
– promuovere un uso sostenibile dell’acqua basato su una gestione a lungo termine;
– garantire la disponibilità di una giusta quantità di acqua quando e dove è necessaria secondo criteri di solidarietà.
Importante passo sarà anche la realizzazione del Sesto Programma d’azione nel quale sono stati rilevati alcuni temi prioritari:
– combattere l’inquinamento;
– promuovere il razionale uso dell’acqua;
– combattere le deficienze idriche persistenti;
– prevenire e gestire le situazioni di crisi.
L’Ispra, Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, ha recentemente reso disponibile il rapporto sul dissesto idrogeologico in Italia nel 2014. Relativamente alle aree a pericolosità idraulica, i dati indicano che circa il 4% del territorio nazionale si trova nelle condizioni di pericolosità elevata (P3: alluvioni frequenti), l’8,1% in quelle di pericolosità media (P2: alluvioni poco frequenti), mentre le aree a pericolosità bassa (P1: scarsa probabilità di alluvioni o scenari di eventi estremi) sono circa il 10,4% del territorio nazionale. In Emilia-Romagna, la popolazione esposta a pericolosità media è di 2.759.962 abitanti (dato riferito alla popolazione residente al 2011).

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La chiusa di San Marco

Si è inoltre verificato un notevole degrado degli ambienti rurali, in particolare nelle zone di collina e di bassa montagna, con frequente abbandono dell’attività agricola e delle connesse sistemazioni idrauliche con conseguente aumento dell’erosione del suolo. Non vanno inoltre dimenticati lo spopolamento della montagna, i disboscamenti e l’accumulo antropico sulle coste: elementi che incidono in un caso per la mancata presenza dell’uomo, nell’altro per l’eccessiva pressione su risorse quali acqua e suolo. A tali fattori si è poi unita la variabilità climatica con il conseguente regime di piogge intense e concentrate nello spazio e nel tempo. Luca Mercalli, metereologo e climatologo, in un’intervista di Sabrina Mechella pubblicata sul sito Megachip Democrazia nella comunicazione, Globalist syndacation http://megachip.globalist.it/Detail_News_Display?ID=79487, già nel 2013 affermava che «in Italia manca la conoscenza fondamentale della geografia del Paese, che non si studia neanche più a scuola. Non ci sono le basi per capire cosa sia una frana, un’alluvione, quali sono i tipi di territorio più o meno favorevoli. Questo si sovrappone a una contro cultura che è quella del fatalismo: meglio appendere il cornetto o pregare il santo devoto piuttosto che occuparsi di studiare un opuscolo di protezione civile. Il terzo punto che coopera questa situazione è la frammentazione di utenti. Anche il cittadino più informato e volenteroso poi si scontra con il fatto di non sapere chi sia il suo partner pubblico che gli deve dare l’informazione. Mentre in molti Paesi europei, negli Stati Uniti o in Canada c’è un unico servizio di cui ci si fida e che dà le informazioni di protezione civile, qui c’è il Comune, la Provincia, la Regione e spesso ognuno di questi settori dice cose diverse, non le dice proprio o sono poco chiare. Il cittadino non sa mai cosa fare e come comportarsi.
È chiaro che in questa situazione gli atti di miglioramento sono evidentemente molti. A cominciare dall’educazione nelle scuole, la produzione di informazione per la gente comune: penso a normalissimi opuscoli o anche a trasmissioni televisive che spieghino alla gente come comportarsi in caso di calamità naturale. Nessuno sa cosa fare in questi casi. Se io adesso andassi per strada e gridassi “C’è l’alluvione!” la gente sarebbe sorpresa chiedendosi cosa fare. Basterebbe un decalogo delle cose da fare in questi casi, anche molto banali tra l’altro, tipo non andare nei sottopassi con l’auto: nell’arco di dieci anni sono morte dieci persone in questo modo. Ci vuole dunque informazione in tutti i settori: scuole, televisione, giornali, la classica bacheca comunale, il corso di formazione nei piccoli centri: tutte cose fattibili».

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Sul ponte di Santa Trìnita, Firenze

Luigi Zoja, intellettuale dalla formazione economica e psicanalitica junghiana, nel suo libro Utopie minimaliste. Un mondo più desiderabile anche senza eroi afferma che «L’uomo non deve smettere di pensare che la sua vita e il suo futuro siano nelle sue mani; non deve lasciarsi schiacciare dalla disperazione della sindrome T.I.N.A. (There Is No Alternative) propagandata da chi non ha a cuore il bene dell’umanità ma solo la preservazione dello status quo […] i deve fare i conti con se stesso, con quelle mentalità che costituiscono il maggior mistero del nostro secolo, quell’accumulo di insensibilità e crudeltà verso il mondo e se stessi che gli uomini, se non intenzionalmente programmano, certo tollerano […] il singolo dispera di poter incidere realmente sui fenomeni globali e confida illusoriamente nell’avvento di un “eroe” solitario, stereotipo la cui prassi fallimentare è tanto ben documentata dalle rivoluzioni storiche». Ed ancora l’autore precisa che se «da un lato è chiaro che anche il più piccolo dei comportamenti singoli può inserirsi in un movimento collettivo (o addirittura innescarlo) accrescendone la forza; dall’altro, questa forma di partecipazione anonima e invisibile richiede – da parte di chi la compie – una pazienza, un’umiltà e una fiducia che non sono tipiche delle personalità mediocri».
Bene, partendo da questa lunga ma indispensabile premessa, è difficile informare-informarsi per spot. Sappiamo che la messa in sicurezza idrogeologica si attua attraverso: riduzione del rischio derivante dalle piogge intense; intervenendo per efficientare le aree utilizzate per agricoltura e attività forestali e agendo sulla gestione e regimazione delle acque. Si devono effettuare dunque opere per il drenaggio e la raccolta delle acque al fine di evitare alluvioni, realizzare canali scolmatori, adeguare le reti fognarie.
In un’intervista rilasciata a Federica Angelini e pubblicata il 15 febbraio scorso sul settimanale “Ravenna&Dintorni”, Claudio Miccoli, dirigente della Regione per il Bacino della Romagna, stimava in 100 milioni il costo della messa in sicurezza del nostro territorio. In quell’occasione l’esperto di problemi idraulici sottolineava che, se pur i danni provocati dall’alluvione avvenuti la settimana precedente, fossero stati più contenuti rispetto a quello che successe nell’ottobre del 1996, nel territorio erano presenti situazioni di pericolo. «Istituzioni e mass media – spiegava – non vogliono parlare del rischio, mentre sarebbe bene non temere di impaurire la gente, dicendo la verità, per far capire quanto è necessario investire in sicurezza e quanto conviene, soprattutto in un bacino subsidente con molte zone al di sotto del livello del mare». Nel corso dell’intervista, Claudio Miccoli rilevava anche che tra i fiumi critici del nostro territorio c’è il Montone con un punto di fragilità alla chiusa di San Marco. Dal 1985 si procede per stralci per provvedere alla messa in sicurezza ma al momento «le arginature non permettono di stare tranquilli per la confermazione»: occorrerebbero altri 15-20 milioni di euro. Se il dottor Claudio Miccoli attraverso l’intervista rilasciata in febbraio ha voluto far presente alla cittadinanza che il nostro territorio, da un punto di vista idrogeologico, è bisognoso di particolari cure e che l’approccio politico e amministrativo al problema è insufficiente per prevenire possibili eventi catastrofici prevedibilissimi, è bene prenderne atto e riflettere sul cosa fare. Riguardo al rischio idraulico della nostra regione anche il Comitato ambiente e paesaggio di Castel Bolognese ha ripetutamente evidenziato l’urgenza di rifare gli studi e rivedere i piani della regione per la messa in sicurezza.

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La chiusa di San Marco (Ravenna)

Dati statistici alla mano, il semplice buon senso indicherebbe come prima strada la necessità di non rincorrere l’emergenza, spendendo molto di più per tamponare i danni di quanto sarebbe servito per evitarli.
Dal Piano A.N.B.I. per la Riduzione del Rischio Idrogeologico del febbraio 2015, ribattezzato report “Manutenzione Italia: Consorzi di bonifica in azione per #italiasicura”, si evince, infatti, che fra il 2010 e il 2012 il costo del dissesto idrogeologico è stato stimato in 7,5 miliardi di euro (in media 2,5 miliardi l’anno), mentre nei 65 anni precedenti era stato, in valore attuale, di 54 miliardi di euro (in media 0,83 miliardi l’anno). Nel 2008 il ministero dell’Ambiente calcolava che per mettere in sicurezza idrogeologica le zone a maggior rischio del territorio italiano sarebbero stati necessari almeno 40 miliardi di euro in 15 anni. In pratica con le somme spese in risarcimenti e riparazioni dei danni nelle sole località colpite si sarebbe potuta realizzare la difesa dell’intero territorio, abbattendo i costi futuri ed evitando le perdite umane. Ed ancora nel piano proposto per il 2015 dall’Associazione Nazionale Bonifiche e Irrigazioni (ANBI), ad una lista di interventi vengono affiancate una serie di raccomandazioni, tra cui limitare il consumo del suolo attraverso un’apposita norma e inserire la “invarianza idraulica” tra i presupposti della progettazione urbanistica. La prevenzione dei rischi è un tema chiave per azioni future anche in materia di politica comunitaria di coesione. In tale ambito rientrano i piani per l’attuazione della Direttiva Europea 2007/60: si tratta dei piani di gestione del rischio alluvioni a livello di distretto idrografico, che gli Stati membri erano tenuti a pubblicare entro il 22 giugno 2015. Per realizzare le proposte dell’ANBI, con la legge finanziaria 2010, si sarebbe dovuto iniziare a realizzare un programma di prevenzione finanziato da risorse, assegnate per il risanamento ambientale con delibera Cipe, pari a 1.000 milioni di euro. Tali risorse dovevano essere utilizzate attraverso accordi di programma tra ministero dell’Ambiente e Regioni, che contemplassero il cofinanziamento regionale, definendo la scala di priorità degli interventi. A suo tempo sono stati stipulati i succitati accordi di programma con l’individuazione degli specifici interventi e delle relative priorità, prevedendo un impegno complessivo di 2.097.771.266 di euro tra finanziamento statale e cofinanziamento regionale. Per ogni accordo è stato nominato un Commissario con il compito di provvedere alla realizzazione degli interventi previsti. A luglio 2014, risulta però essere stato speso meno del 4% di quanto previsto. Praticamente solo il necessario per mandare avanti i regimi di commissariamento.

Nel giugno 2014 è stata istituita presso la Presidenza del Consiglio una “Struttura di missione contro il dissesto idrogeologico e per lo sviluppo delle infrastrutture idriche”, avente il compito specifico di accelerare l’attuazione degli interventi di messa in sicurezza del territorio, di coordinare le azioni di tutte le strutture dello Stato e gli enti operanti nel settore, di supportare la nuova programmazione delle risorse per il ciclo 2014-2020. Per la stessa finalità il cosiddetto “decreto competitività” (decreto legge n. 91 del 2014) ha affidato la responsabilità della realizzazione degli interventi ai presidenti delle Regioni in qualità di “Commissari straordinari delegati”, attribuendo loro importanti poteri sostitutivi e di deroga. Un successivo decreto legge ha reso ordinaria l’attribuzione, ai presidenti di Regione, di funzioni per gli interventi di mitigazione del rischio idrogeologico avviando contemporaneamente un procedimento di ricognizione sullo stato di attuazione di tutti gli interventi finanziati anche in data antecedente al 2009 per procedere alla revoca delle risorse economiche non ancora utilizzate e destinarle ad interventi altrettanto urgenti, ma immediatamente cantierabili. L’obiettivo è stato quello di trasformare in cantieri oltre 2 miliardi di euro non spesi dal 1998 per ridurre situazioni di emergenza territoriale. Le Regioni, con le Autorità di bacino e la Protezione civile, hanno indicato la necessità di circa 5.200 opere per un fabbisogno di 19 miliardi di euro. Contemporaneamente la Struttura di missione ha raccolto, insieme al ministero dell’Ambiente, le proposte regionali per due piani: il Piano nazionale per la difesa del suolo 2014-2020 (risorse tra i 7 ed i 9 miliardi di euro) e il Piano stralcio destinato alle aree metropolitane. Se qualcosa si sta muovendo almeno per quanto riguarda i miliardi già stanziati e mai spesi è evidente che un piano organico e concreto non si esaurisce con la conclusione degli interventi già previsti, ma solo se viene pensato come spesa strutturale per l’intero Paese.

Pannelli informativi sul primo progetto della chiusa di San Marco di Gianantonio Zane, realizzata tra il 1733 e il 1739, con un’incisione della stessa tratta da Filippo Diego Bellardi, “Ragguaglio istorico della diversione dei duo [sic] fiumi il Ronco e il Montone della città di Ravenna”, Bologna, C. M. Sassi, 1741

Il rischio di dissesto idrogeologico in tutta l’Emilia Romagna è peggiorato notevolmente, aumentando complessivamente di circa il 10% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Le opere da realizzare riguardano le manutenzioni “straordinarie” di bonifica, sistemazioni idrauliche, adeguamento e potenziamento delle opere di scolo delle acque, laminazione delle piene, realizzazione delle casse di espansione (fondamentali per la sicurezza anche dei centri urbani), consolidamento frane e ripristino dei versanti montani, realizzazione di briglie di contenimento del terreno.
Tra le proposte di Legambiente riguardo al dissesto idrogeologico leggiamo la necessità di
– delocalizzare i beni esposti a frane e alluvioni, se legali;
– adeguare lo sviluppo territoriale alle mappe del rischio presente sul territorio;
– ridare spazio alla natura. Restituire al territorio lo spazio necessario per i corsi d’acqua, le aree per permettere un’esondazione diffusa ma controllata, creare e rispettare le “fasce di pertinenza fluviale”, adottando come principale strumento di difesa il corretto uso del suolo;
– sorvegliare in modo speciale torrenti e fiumare;
– attuare una manutenzione ordinaria del territorio che non sia sinonimo di artificializzazione e squilibrio delle dinamiche naturali dei versanti o dei corsi d’acqua;
– prevenzione degli incendi. In molti casi il disboscamento dei versanti causato dagli incendi può aggravare maggiormente il rischio di frana di un versante, oltre che avere un notevole impatto ambientale;
– applicare una politica attiva di “convivenza con il rischio” con sistemi di allerta, previsione delle piene e piani di protezione civile aggiornati, testati e conosciuti dalla popolazione;
– rafforzare le attività di controllo e monitoraggio del territorio per contrastare illegalità come le captazioni abusive di acqua, l’estrazione illegale di inerti e l’abusivismo edilizio;
– gestire le piogge in città.

«Gli aborigeni si muovevano sulla terra con passo leggero; meno prendevano dalla terra meno dovevano restituirle»

Bruce Chatwin,
Le vie dei canti [The Songlines], Milano, Adelphi, 1987

 

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