Henry James

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Giovanni Paolo Pannini, Galleria di vedute della Roma moderna, olio su tela, 1759

Ravenna, la “città senz’ombra” (1873)

Il grande scrittore americano Henry James mette per iscritto i suoi ricordi di Ravenna1 – abbozzati in gran fretta qualche giorno prima «nell’antica capitale di Onorio e Teodorico» – «sulla cima di una fredda montagna svizzera», avvolto in una «densa coltre di candida nebbia» (perché non dimentichi il nostro clima), che gli impedisce la vista dell’«adorabile Italia», ormai lontana «giù in basso». Qui nelle brume nordiche, nell’«aspro paesaggio alpino», lo scrittore pensa alla città, e «il suo semplice aspetto» lenisce un’immaginazione in fase depressiva, facendogli sperare in un veloce ritorno della bella stagione. Ravenna, infatti, meno di una settimana prima, «era nel suo splendore». James rasenta i muri delle case per godere «delle strette fasce d’ombra che accompagnavano un lato delle sue strade bianche e deserte». Già due indizi di quella che sarà, per lo scrittore, l’immagine di Ravenna: deserta e “senz’ombra”. James giunge da noi dopo Firenze (il cui ricordo lo fa «fremere») e Bologna: e, incredibile a dirsi, novello Democrito, viene preso dal riso all’arrivo in città (mentre quasi tutti gli altri viaggiatori futuri, tranne Simone Weil e il grande Savinio, avevano vestito meglio i panni del lacrimoso Eraclito). In realtà, James scrive «sorriso». E come Democrito ride della stoltizia degli uomini, lui sorride «di un sorriso grave, meditabondo, filosofico, […] così come conviene alla dignità storica, per non parlare della tristezza mortale e solatia del luogo». James prima ci illude, poi rivolta la “penna” nella piaga.

Ultimi fuochi ravennati

È una calda (e umida, si suppone) serata dell’estate del 1873. James è appena giunto a Ravenna, nella «sonnolenta Ravenna», dove si stanno spegnendo gli ultimi fuochi della festa dello Statuto (la celebrazione della sospirata libertà dai gioghi secolari dello Stato Pontificio). James riesce ancora a coglierne gli ultimi echi, «soprattutto sulla soglia dei caffè, mentre si esibiva la banda della guarnigione, alla luce di qualche dozzina di fiochi lumi sistemati lungo la facciata del palazzo del Governo».
Tutto, in realtà, è concluso da tempo, e il viaggiatore yankee si trova da solo, in mezzo alla Piazza, in una «luce grigiastra in compagnia di un affabile cittadino» da cui desidera avere le solite informazioni sulle «tradizioni» e i «costumi della città». James è appena giunto, ma ha già compreso che non è capitato nel paese di Cuccagna. E rileva perciò allo sconosciuto, seppur «con la massima deferenza», come la città non sia il «luogo più vivace della terra». L’«amico» ravennate ne conviene: «Ravenna non era sede di una vita particolarmente briosa». Ma subito aggiunge, con orgoglio tipicamente romagnolo: «aveva già visto il Corso? Senza vedere il Corso non si potevano considerare esaurite tutte le possibilità».
Ma anche lì l’anima ravennate non si smentisce: «Il Corso di Ravenna, in una calda notte d’estate, possiede un’atmosfera di sorprendente raccoglimento e di riposo». Corso Valium. «Qua e là, da una finestra chiusa ai piani superiori, baluginava una luce» (la solita dialettica ravennate tra intérieur ed extérieur, colta da molti viaggiatori).
Ma anche gli “affari privati” non sembrano emettere alcun rumore: «i passi del mio compagno e i miei erano gli unici suoni […]. L’aria soffocante mi aiutava a credere al momento che stavo camminando nell’Italia del Boccaccio, nel bel mezzo di una pestilenza, attraverso una città che aveva perduto metà della popolazione a causa dell’epidemia e l’altra perché era fuggita». Ravenna, una città “ai tempi del colera”. Ma James torna all’albergo «profondamente soddisfatto». L’atmosfera che ha respirato a Ravenna rispecchia perfettamente, in fondo, «la monotonia dei tempi passati». Che cos’è se non questo «l’antichità, la storia, il riposo».
Ravenna ha un posto assicurato nella storia.

Il “deserto” e l’“oasi”

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Ritratto di Henry James, 1925

A Ravenna James verifica che il tempo è un concetto relativo. L’impressione di un suo “arresto” dall’età di Boccaccio, come lui stesso aveva avvertito passeggiando nel Corso, gli viene confermata dagli “indigeni”: «A Ravenna il cameriere del caffè e il cocchiere che vi conduce alla Pineta alludono a Galla Placidia e a Giustiniano come ad un qualunque soggetto del momento particolarmente interessante».
Salvatore Settis, autore di un bellissimo saggio sulle diverse modalità del rapporto con l’antico da parte del Medioevo e dell’Umanesimo (Continuità, distanza, conoscenza. Tre usi dell’antico, Einaudi, Torino 1986), parlerebbe senz’altro di paradigma della “continuità”: per i ravennati non esiste la “distanza” critica, scoperta per la prima volta proprio dal Boccaccio grazie al diritto al “dubbio” nei confronti di quelle che lui chiama le «favole da vecchierelle».
Il passato, per gli abitanti della città, è lì dietro l’angolo; non è “remoto” ma “prossimo”. Meglio, è un “presente storico”. James, di buon grado, prova a mettersi «vagamente in sintonia con una sfida così ardua», ma riesce soltanto a percepire «nel profondo» che sta «respirando un’aria carica di prodigiosi ricordi e stupefacenti reliquie». Ma il termine «reliquie» dichiara senza possibilità di dubbio che si tratta pur sempre di resti di un morto. Ravenna non gli appare che «un borgo spopolato e disperso […] Le strade […] coperte d’erba». E James, nonostante cammini tutto il santo giorno, non riesce a «vedere un solo veicolo a ruote» (qui ci siamo dati da fare). James non ricorda negozi (ma sta parlando proprio della nostra Ravenna?) al di fuori di un «piccolo laboratorio di un cortese fotografo, le cui vedute della Pineta, l’immensa e leggendaria foresta di conifere giusto fuori città» destano nello scrittore «una grande voglia di rifugiar[si] in quell’oasi».
Il deserto e l’oasi. Una bella metafora.

I gioielli di Ravenna

James, dopo aver paragonato Ravenna ad un deserto e la Pineta all’oasi agognata, passa al setaccio la nostra architettura. L’incipit non è dei più incoraggianti: «Non esistono architetture di cui si debba parlare». Se qualcosa esiste è preda da tempo di un inesorabile processo di disfacimento: «…sebbene vi siano molte grandi dimore dai nomi aristocratici [i palazzi dei Sei-Settecento], in realtà si stanno sfaldando, cotte dal sole, in modo per nulla dignitoso». Il tempus edax rerum dispiega, qui da noi, tutta la sua potenza.
Non parliamo poi dell’architettura cosiddetta “minore” (la cultura materiale è ben al di là da venire): «Le case hanno per lo più un carattere di crudezza rusticana; sono basse, povere ed anonime, addossate ad alti muri di cinta dei giardini [la Ravenna “abbottonata” di Savinio, come si vedrà a suo tempo], al di sopra dei quali pendono immoti nell’aria stagnante [le origini paludose non si possono dimenticare!] delle vie lunghi tralci di folte viti».
In mezzo a tanta «desolazione» accade però il “miracolo” ravennate, quello che ci fa vivere di rendita da più di un millennio: «Qua e là […] in qualche angolo particolarmente silenzioso e verdeggiante, si erge una vecchia chiesa in laterizio con la facciata più o meno guastata da un restauro moderno di poco prezzo [fa piacere che quello che Ruskin chiama «la peggior forma di distruzione», il “cosiddetto” restauro, non sfugga all’occhio attento di James] ed uno strano campanile cilindrico, forato da piccole finestre ad arco che ci riconduce molto vicino al V secolo [saremo così pedanti da sottolineare l’errore di datazione del grande scrittore?].
Cos’è che colpisce di più in queste “presenze” del passato? Che «dopo tredici secoli di ben intenzionate spoliazioni» – più che il tempo è l’uomo ad essere “edace” –, nonostante tutto ospitino ancora «un’ineguagliabile raccolta di mosaici della prima età cristiana». Chi ha (istituzionali) orecchie da intendere, intenda.

Geroglifici ravennati

La Chiesa e non l’Impero, per James, è all’origine di Ravenna. In particolare un «santo esemplare», Apollinare, «cui sono dedicati i due più bei luoghi di culto del luogo». James, dunque, si dirige verso quello «chiamato scherzosamente “nuovo”» (tutto è relativo…). Davanti alla basilica si sofferma a guardare «la grande e rossa torre campanaria di forma cilindrica, così rugginosa, così sgretolata, così arcaica eppure così risoluta a far sentire i propri rintocchi ancora per uno o due secoli» (fino al 2073 possiamo dunque stare tranquilli).
La materia ravennate è sempre “segnata” dal tempo, per James come per quasi tutti i viaggiatori: il passato tenta di resistere stoicamente e cocciutamente all’inevitabile destino che attende tutte le cose poste “sotto il cielo di Ravenna”.
Entrato nella «frescura dell’interno», James si trova di fronte ad un «vero e proprio repertorio di tipologie della prima età cristiana»: «frammenti di marmo giallo ricoperti di curiosi emblemi scolpiti […] grandi vasche appena sbozzate […] sedie episcopali il cui marmo appare consunto da secoli di attrito con le solide persone dei prelati» (non solo tempus, dunque, ma anche nates edaces!).
Allo scettico James sfugge del tutto il senso di quei simboli dell’alba cristiana: «geroglifici incisi d’astrusità quasi pari a quella degli ideogrammi egizi, con agnelli, pesci, cervi ed altri animali, il cui referente teologico appare ancora meno evidente». L’aggettivo “strano” ritorna più volte: strani i campanili cilindrici, strani gli «oggetti» custoditi nella basilica, strane le figure immortalate nei mosaici che «con i loro volti colorati e lo sguardo fisso» irrigidito nelle tessere, tentano, nonostante tutto, col «cattivo latino della decadenza» di rispondere al nostro «stupore», svelandoci i segreti di una fede e di un culto che ormai ci sfuggono, irrimediabilmente.

La pittura eterna

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Facciata di Sant’Apollinare Nuovo, fine XIX Sec.

James è di fronte ai mosaici di Sant’Apollinare Nuovo: ricorda, su un lato, la splendida rappresentazione di Classe e di Ravenna, la processione delle ventidue vergini e dei tre magi che converge vergo la Madonna col Bambino e i quattro angeli; e, sulla parete opposta, i venticinque santi (speculari, ventidue più tre) diretti verso «un Salvatore seduto in trono tra angeli di singolare espressività». Angeli “inquietanti”: «Che cosa di preciso questi serafini dalle lunghe figure slanciate intendano esprimere non sono certo in grado di dirlo [paradossalmente, Ravenna e i suoi simboli rimangono oscuri e distanti per uno scrittore che di lì a due anni, nel 1875, si stabilirà definitivamente in Europa, incapace, come scriverà in una famosa lettera, di vivere in un paese – gli Stati Uniti – privo di antiche vestigia, chiese medievali, e in sostanza, di un passato]; tuttavia, a guardarli bene, dagli stretti ovali dei loro occhi sfugge uno sguardo obliquo che, sebbene non privo di dolcezza, mi indurrebbe certo a mormorare una preghiera di scongiuro o qualcosa di simile».
Anche Lucifero, da Tertulliano in poi, era un angelo: il più sfolgorante. Dall’“ambiguità” degli angeli, all’ambiguità del mosaico: «L’intera opera risale alla fine del sesto secolo e si trova in ottimo stato di conservazione. Lo sfondo dorato scintilla come se fosse stato posto in opera appena ieri». Il mito del mosaico come pittura eterna, già reso topico da Vasari. Questo paradosso stupisce James: «mentre i secoli erano trascorsi ed erano caduti e risorti imperi, queste piccole tessere colorate di pasta vitrea rimanevano nelle loro sedi conservando intatta la loro freschezza». Ma il tempo, scacciato dalla porta rientra dalla finestra: il ricordo di queste «splendide gemme», si è trasformato, per James, «in un unico, indifferenziato atto di memoria». Ravenna, da parte sua, vi contribuisce in pieno: «la sua quiete sepolcrale, il suo penetrante profumo di caducità, di decadimento, di mortalità, mescola i tratti distintivi e rende confusi i dettagli». Anche quelli delle “inattaccabili” tesserine di vetro.

“Dogana” San Vitale

San Vitale

Romolo Liverani, Veduta interna della Basilica di San Vitale, disegno a inchiostro, 1843

Dopo aver criticato di passaggio le «eccessive modernizzazioni» degli addobbi con cui la nostra Cattedrale, «alta e immensa», era stata agghindata in vista del centenario di Sant’Apollinare, motivo in più per fargli optare per una assai più “gradevole” passeggiata «a lenti passi, nella luce del crepuscolo agostano, lungo la navata tranquilla di Sant’Apollinare» (evidentemente poco “apollinaresco” per la Curia ravennate di allora), James ritorna col ricordo all’«imponente chiesa ottagona di San Vitale». Qualunque paludato storico dell’architettura e dell’arte inorridirebbe all’effettivamente curioso paragone scaturito dalla fantasia dello scrittore: «simile ad un ufficio di cambio o a una dogana». Offesa che non si lava nemmeno con la successiva “insicura” puntualizzazione: «Credo sia stata costruita sul modello di Santa Sofia a Costantinopoli». «Decisamente solenne», la basilica è una sorta di museo che conserva nel coro una collezione di «veri e propri quadri, pieni di movimento, di gestualità e di prospettive», in cui le «tinte sono state smorzate dal tempo quel tanto che basta a convincere l’osservatore della loro antichità». Se tornasse oggi, dopo le recenti puliture, James avrebbe qualche dubbio? Proprio al centro dell’ottagono, un artista intento a ritrarre il coro diviene oggetto dell’interesse dello scrittore.
Il risultato del suo sforzo artistico, destinato, suppone James, «ad una parete della biblioteca nella casa di una qualche persona di buon gusto», anche se fosse stato «migliore di quanto non desse a vedere […] non avrebbe mai potuto narrare» al suo futuro proprietario – «a meno che non ci fosse già stato» – «in quale angolo silenzioso, consunto, appartato dell’antica Italia quel quadro era stato dipinto». Ravenna silente, dimenticata in un angolo dalla storia… ma adesso, caro James, dopo che è arrivato Lou Reed, tuo conterraneo, non è più così.

Una vita spericolata

Un artista che «nutra passione per gli oscuri recessi architettonici» non potrebbe trovare, per James, «luogo migliore» che la «piccola e straordinaria chiesa dei Santi Nazaro e Celso, altrimenti conosciuta come il mausoleo di Galla Placidia». In verità, anche “troppo oscura”, perché si possono incontrare fiere difficoltà a «distinguere il verde dal rosso» (al di là di possibili daltonismi). Il luogo – James lo riconosce immediatamente – è un vero e proprio genius loci della città. Il «punto […] dove l’impressione possiede un’autorità sovrana ed una grande forza emotiva». Ma non per il motivo che ci aspetteremmo tutti, i mosaici. Lo scrittore è infatti attratto dai «tre enormi sarcofagi barbarici che contengono i resti di altissimi personaggi del basso impero» che si scorgono «attraverso la luce fioca». E qui James si rivolge direttamente ai ravennati – col «voi» – elogiandone l’attività di “archeologi” della storia : «È come se la storia si fosse nascosta sotto terra per sfuggire alle ricerche e voi l’aveste felicemente riportata alla luce». Splendida immagine dell’eterna lotta tra l’oblio del tempo (come non pensare al mausoleo di Teodorico “interrato” dell’incisione di Piranesi (due secoli ante Podrecca…) e la cocciuta memoria degli uomini. Accanto alle ceneri di Onorio (perché non lasciarlo credere a chi vuol crederlo?) e di Costanzo III (idem) quelle di Gallia «una donna – scrive eufemisticamente James – che credo debba aver trascorso una vita decisamente avventurosa». D’un tratto le tre tombe e i baluginanti mosaici creano l’illusione di «una piccola grotta naturale, striata di minerali luminescenti». Ma, immediatamente, l’idillio svanisce e James riconosce come vi sia «qualcosa di assolutamente spaventoso a sostare in silenzio così vicino a questi tre fantasmi imperiali». La Storia con la S maiuscola ci guarda da quel piccolo capolavoro di semplici mattoni: «L’ombra del gran nome romano»… grande nel bene e nel male (più nel male, direbbe Simone Weil).

«Exegi monumentum…»

Nel suo blaser attraverso Ravenna James non poteva non imbattersi nei due grandi di sempre: Dante e Byron. I loro ricordi “indugiano” nello spazio-tempo della città (anzi, lo si è visto, per James a Ravenna il tempo è come abolito, e tutto sembra parlare il “passato prossimo”) altrettanto che quelli dei «primi vescovi» o di «imperatori degeneri» (vedremo, a suo tempo, la Yourcenar…). Subito un affondo nei confronti dello “sbilancio” fra “contenuto” e “contenitore”: «Il sepolcro di Dante, va pur detto, è tutto fuorché dantesco e l’intero recinto [la futura Zona del silenzio] è sistemato con quel bizzarro cattivo gusto che contraddistingue la maggior parte dei tributi che l’Italia contemporanea eleva ai propri grandi» (non solo l’Italia: si veda il magistrale saggio di Robert Musil, Monumenti di Pagine postume pubblicate in vita per rendersene conto). Il supremo autore della Divina commedia, «ricordato in stucco persino in un cantuccio sonnolento della città» – a quale opera si riferirà mai James? – «non ispira simpatia». Come che sia, «per fortuna di tutti i poeti, essi non hanno bisogno di monumenti, poiché sono innanzitutto architetti della parola [Savinio, parlando proprio di Dante lo definirà uno “scultore” della parola, come vedremo] e con essi si costruiscono templi di gloria più solidi delle mura ciclopiche». «Exegi monumentum aere perennis», come scrisse, una volta per tutte, Orazio. E la Commedia è un’architettura dell’aldilà costruita di terzine.
E Byron?

“Due” buone ragioni

Avevamo lasciato James alle prese con la poco “monumentale” tomba di Dante. Ma se «la tomba di Dante non è dantesca, neppure la casa di Byron è byroniana».
L’altro eroe del pantheon ravennate (eroi acquisiti, visitors, non locali, beninteso) vede legato il suo glorioso nome ad «un’abitazione modesta e grigia disposta su due piani, che dà direttamente sulla strada, quasi del tutto priva di isolamento e di mistero» (ironia della sorte per un autore, Byron, così romanticamente “misterioso”). «Ai tempi di Byron – ricorda James – era una locanda ed è piuttosto curioso pensare che Caino e La visione del Giudizio siano state scritte in un albergo». Questo fatto, per James, costituisce senza dubbio «un precedente d’incredibile efficacia per i turisti ad un tempo sentimentali e letterati che si vogliono astrarre dal mondo». Dunque, aspiranti scrittori, non andate sulle isole deserte ma chiudetevi negli alberghi (ravennati?).
Poi James, mai troppo tenero con Ravenna, dà via libera alla più sottile ironia di cui la sua penna è capace e per l’eternità si autocondanna a non ricevere mai le chiavi della nostra città. La prende un po’ alla larga: «La conoscenza di Ravenna ha aumentato in misura considerevole la stima che nutro per Byron, aiutandomi a rinnovare la fede nella sincerità della sua ispirazione» [dove andrà a parare?]; «Solo un uomo de son temps [addirittura il francese!] […] può aver trascorso due lunghi anni in questa città stagnante [ah, ci siamo] con il solo scopo di trarre un grande e disinteressato piacere dal suo proprio talento». Se la sua vena poetica non ha risentito di Ravenna vuol dire che era proprio un genio, questo il succo.
Ma forse l’ispirazione naturale non era sufficiente. Ci sarà stato qualcos’altro che l’avrà aiutato. Il paziente lettore cosa ne dice? James ne è certo. Cherchez la femme!

Sulle orme di Byron

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Ritratto di George Gordon Byron, 1836

La domanda è: possibile che la vena poetica di Byron non si fosse inaridita durante un soggiorno abbastanza lungo – dal 1819 al 1821 – nella «città stagnante»? Cosa non aveva fatto spegnere la fiamma del genio? James, da gran signore, usa la perifrasi; non fa assolutamente nomi, solo cognomi: «Aveva, a dire il vero, un buon passatempo – le varie chiese erano ornate dai monumenti degli antenati dei Guiccioli». Ma, nonostante questo buon motivo, chiunque, eccetto Byron, avrebbe avuto l’ispirazione spezzata: «ma ciò nondimeno è evidente che Ravenna, cinquant’anni fa [ai tempi del soggiorno byroniano], doveva essere un luogo d’una tristezza insopportabile per uno straniero distinto e non dotato di risorse intellettuali» (attenzione, ha detto «cinquant’anni fa». Qualcuno potrebbe offendersi. Meglio specificare. Oggi è tutta un’altra cosa).
Il ricordo di Byron, dunque, per James, non rende allegri e induce a riflessioni sull’ingiustizia del mondo nei confronti dei suoi figli più grandi: «L’ora che si passa in compagnia della memoria di Byron è perciò quasi intrisa di compassione. Dopo tutto, ci si dice allontanandosi dalla piccola e magniloquente lapide posta sulla facciata della sua casa e volgendo lo sguardo alla vista mortalmente provinciale della strada vuota e assolata, l’autore di stanze così superbe, chiedeva al mondo meno di quanto egli stesso donava».
Come si sa, Byron amava cavalcare. Ce lo ricorderà la Yourcenar. E James, sulle orme del grande inglese, monta a cavallo e s’inoltra nella Pineta, che anche Dante e Boccaccio hanno così amato da inserirla «nel loro narrare». Lo scrittore vi si reca «alla ricerca di un possibile soffio di brezza marina». Che cosa scoprirà nella “foresta”?

Ravenna vs New York

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Alessandro Guaccimanni, New York, olio su tela, 1894

A volte le paludi non sono sempre sinonimo di desolazione. James, infatti, come nelle favole, vi incontra una “chiesetta incantata”: «Tra la città e la foresta, nel bel mezzo di un terreno paludoso e malarico, si innalza la più bella delle chiese ravennati, l’imponente tempio di Sant’Apollinare in Classe». Ricordi di scuola: «L’imperatore Augusto aveva costruito nei dintorni un porto, per la sua flotta, che i secoli hanno insabbiato [ah!, la capricciosa instabilità del suolo nostrano] e che sopravvive solo nel nome [sc. Classe] di questa antica chiesa». L’essere in «assoluta solitudine», isolata in mezzo alla palude, «ne raddoppia l’effetto».
La visita alla chiesa è un vero e proprio “incontro”: «Le sue grandi porte si aprirono dinnanzi a me, facendo filtrare un raggio di calda luce nella splendida navata, tra le ventiquattro colonne di marmo cipollino soffuse da una luminescenza perlacea; e la luce salì anche per l’ampia scalinata dell’abside, per poi trascorrere sotto i mosaici della volta». Il tempo si ferma: James rimane in contemplazione «per una memorabile mezzora, seduto in quell’onda di luce morbida», come se il suo corpo non pesasse, guardando oltre la «porta spalancata, verso il verde vivido degli stagni, porgendo l’orecchio a quella quiete malinconica».
Dopo, lo scrittore vaga per il «Bosco delle Associazioni, tra i tronchi alti, protesi ed argentei dei pini» fino ad arrivare al termine della foresta, all’aperto azzurro del mare, «ad una visione di vele bianche che scivolavano scintillando dietro le dune». Tutto sembra concorrere a creare l’immagine “nobile” del «caratteristico», del topico, del già visto.
Ma Ravenna sorprende sempre (nel bene e nel male): «poiché gli alberi erano lontani l’uno dall’altro ed ergevano alto contro il cielo azzurro null’altro che il loro piccolo parasole di foglie», James coglie in quest’attimo uno degli aspetti ontologici della città, in senso fisico ma anche metaforico: «l’essere cioè senza alcuna ombra».
A Ravenna manca la verticalità, lo sguardo dall’alto. Ha campanili sì, ma più larghi che alti. Un po’ tozzi. Ravenna l’alter ego di Manhattan.
Grazie, Henry James, per avercelo fatto capire.

Note

(1) Henry James, Ravenna [1873], in Id., Italian Hours, illustrated by Joseph Pennell, London, W. Heinemann, 1909, trad. it., Ore italiane, a cura di Attilio Brilli, Milano, Garzanti, 1984, pp. 411-423. Ringrazio Luigi Dal Re e Fausto Fiasconaro della Biblioteca Classense per l’aiuto datomi nella ricerca iconografica. N.B.: per tutti i testi della rubrica “Grand Tour” devo ringraziare, per la loro attenta lettura, a suo tempo, Franco Costantini, ed ora, Marina Mannucci.

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