Dell’Antico, del Moderno e dei loro rapporti

I 25 anni di esperienza dell’architetto Agostinelli alla Soprintendenza di Ravenna, ma anche nel progetto della propria villa

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Sant’Apollinare in Classe. Vista della navata principale

 

«La nostra visione del passato è legata al nostro vivere oggi, ed ecco quindi
che riemerge l’Antico, e lo fa tramite una serie di oggetti portatori di dati che non
tutti possono decodificare. Quindi chi si occupa di questi dati ha il dovere
di decodificarli attraverso il ricorso alle strumentazioni tecnologiche più recenti,
ottenendo preziose informazioni sul materiale di cui un determinato utensile
proveniente dal passato risulta costituito e con quali arnesi sia stato lavorato»

 

Uno delle ultimi incontri del ciclo di conferenze 2014 sul ruolo dell’architettura promosso da questa rivista è stato quello con Emilio Roberto Agostinelli. Nato nel 1958 a Lecce nel 1983, si laurea a pieni voti all’Università “La Sapienza” di Roma con una tesi in Restauro dei Monumenti. Nel 1990 vince il concorso nazionale indetto dal Ministero per i Beni Culturali e Ambientali e diviene funzionario della Soprintendenza ai Beni Architettonici e il Paesaggio di Ravenna; da allora è stato direttore dei lavori in gran parte dei monumenti UNESCO, e in molte altre chiese della città, come la sua Cattedrale con l’antico Episcopio. Inoltre si è occupato del Duomo e della Fonte di Piazza del Popolo di Faenza e della Fontana Masini di Cesena. Nel 2006 ha assunto il ruolo di Architetto Direttore Coordinatore della Soprintendenza con funzioni di tutela e di sorveglianza nei comuni di Cesena, Ravenna e provincia, affiancando nel frattempo l’insegnamento di “Restauro Architettonico” come professore a contratto, funzione che tuttora svolge alla Scuola di Ingegneria e Architettura dell’Università di Bologna, sede di a Cesena, così come aveva insegnato “Teorie e Storia del Restauro Architettonico” alla Scuola del restauro del Mosaico di Ravenna. L’incontro con Agostinelli nel dicembre 2014 si è sviluppato sui canoni di una dotta chiacchierata, ispirata alla tradizione pluricinquantennale del trebbo poetico, così come “codificata” da Valter Della Monica a Cervia. L’atmosfera del “Trebbo”, in questo caso “architettonico”, viene suggerita non soltanto dalle parole, ma anche dalle volte ribassate in mattoni (delle cantine di Palazzo Rava dove si tiene l’incontro) che ad Agostinelli ricorda la sere in cui uomini e donne si riunivano nelle stalle per ascoltare le storie raccontate con sapienza dal Fulér.

«La sfida quindi sta nel comprendere il bene culturale senza ingessarlo, inserendosi con un linguaggio contemporaneo sensibile alle voci dei precedenti progettisti per dare la lettura
del nostro vivere nella modernità. Si tratta quindi di un problema di linguistica moderna applicato ad un palinsesto: l’intervento moderno sulla preesistenza non deve danneggiare il testo antico, né tentare
di riprodurlo. Per questo motivo si rifiuta
il concetto del falso antico»

«Che cos’è l’Antico?», si interroga il relatore. Si tratta di un termine dal significato mutevole nel corso del tempo. I Romani vedevano le opere degli Egizi e dei Greci, che per loro erano già antichi e ne traevano ispirazione. Nel Rinascimento ci si ispirava alle architetture dei Romani, anche e soprattutto perché antiche e portatrici di regole compositive ritenute perfette. «Con il trascorrere del tempo il modo di vedere l’Antico è cambiato. Un tempo la cattedrale romanica come quella di Pienza era considerata solo un po’”vecchia”, in quanto nel restauro si parlava la lingua dell’eterno presente. Già nell’Ottocento si è creata una separazione tra noi e il passato, grande quanto quella ora determinata dall’uso quotidiano dei cellulari, oggetti ad obsolescenza programmata. Negli ultimi cinquant’anni nella storia si è materialmente interposto una distanza percettiva tale da eliminare il concetto dell’eterno presente.

Villa Agostinelli, Ravenna, 2004, vista della scala che collega il patio nord al tetto a giardino pensile e vista del patio sud

Oggi  infatti la nostra visione del passato è legata al nostro vivere oggi, ed ecco quindi che riemerge l’Antico, e lo fa tramite una serie di oggetti portatori di dati che non tutti possono decodificare. Quindi chi si occupa di questi dati ha il dovere di decodificarli attraverso il ricorso alle strumentazioni tecnologiche più recenti, ottenendo preziose informazioni sul materiale (pietra, laterizio, legno, metalli, vetro) di cui un determinato utensile proveniente dal passato risulta costituito e con quali arnesi sia stato lavorato». In questo passaggio si inserisce un tema fortemente morale. «Il restauratore ha il dovere etico di raccogliere i dati decodoficati contenuti negli oggetti del passato, per poi trasmetterli alle generazioni che seguiranno».
Questo dovere deve rappresentare un obbligo sia per il restauratore sia per il progettista del nuovo nell’avviare una comprensione profonda del passato e del rapporto tra Antico e Moderno, sapendo che «la nostra scrittura di oggi è un’aggiunta alla scrittura del passato». La sfida quindi sta nel «comprendere il bene culturale senza ingessarlo, inserendosi con un linguaggio contemporaneo sensibile alle voci dei precedenti progettisti per dare la lettura del nostro vivere nella modernità. Si tratta quindi di un problema di linguistica moderna applicato ad un palinsesto: l’intervento moderno sulla preesistenza non deve danneggiare il testo antico, né tentare di riprodurlo. Per questo motivo si rifiuta il concetto del falso antico».

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San Vitale. Il restauro del tetto del tiburio e dei manti di copertura

Per chiarire il passaggio Agostinelli cita un’esperienza condotta al tetto di S. Vitale. In quel caso ogni nuova lastra di piombo è stata bollata con l’indicazione dell’anno del restauro, ogni nuovo embrice in laterizio è stato realizzato facendo ricorso alla medesima macchina che li aveva prodotti decenni prima con data del restauro e stemma dell’Archidiocesi. Per il consolidamento della struttura lignea del tiburio Agostinelli racconta «di aver suggerito al direttore dei lavori – architetto Paolo Focaccia – di realizzare un cappello strutturale costituito da un sistema di puntoni-tiranti in acciaio inox posto a rinforzo delle travi ad andamento radiale, e inoltre una nuova catena metallica integrativa alle travi disposte lungo il perimetro ottagonale della cupola. Nel progetto si ebbe cura di porre in opere delle nuove “linee vita” e un sistema di rilevamento continuo a telecamere per il controllo del livello della neve».

Per quanto riguarda i mosaici, si è deciso di evitare interventi diretti sulla materia musiva, preferendo una conservazione programmata, un restauro preventivo basato sulla reologia, vale a dire sulla registrazione e l’analisi dei dati contenuti nel monumento. «Infatti la prevenzione costa meno del grande restauro». Fin dal 1996, ricorda Agostinelli, mentre seguiva il progetto di illuminazione di S. Vitale vennero collocate 160 lampade in posizioni nascoste, collegate ad un sistema di sensori collocati all’esterno e all’interno e quindi in grado di fornire in tempo reale i dati per l’esecuzione di programmi di routine per l’illuminazione selettiva della basilica. Il turismo indotto dagli effetti dell’illuminazione notturna della basilica fu notevole, ma purtroppo venne poco dopo abbandonato.

«In realtà, quando si legge il De Architectura
di Vitruvio – commenta Agostinelli – può sembrare di essere davanti ad un trattato
di bioarchitettura. Questo è l’atteggiamento corretto tra Antico e Moderno: non l’architetto passatista che ricostruisce l’inferriata applicando dei “ghirigori” per renderla “antica”. All’Almagià in Darsena di Città e al Magazzino del Sale di Cervia ho consigliato l’utilizzo di nuovi pavimenti in resina, seguendo il concetto del “neutro architettonico”, cioè usando
un linguaggio e materiali contemporanei
in un contesto di archeologia industriale»

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Battistero Neoniano. Vista dell’interno

Nella sua esperienza di architetto direttore c’è anche il restauro delle capriate di S. Apollinare in Classe, operazione eseguita nel 2006 senza chiudere la basilica al pubblico. Per questo motivo, prosegue Agostinelli, «dovetti inventare un ponteggio per consentire ai restauratori di effettuare le iniezioni nelle travi attaccate dagli insetti xilofagi. Poiché era inverno e le resine facevano presa solo a 20°C, si  realizzò una struttura mobile, dotata della predisposizione per la climatizzazione locale. Fu quella l’occasione per creare un cantiere visitabile a 23 metri di altezza, in cui poteva ammirare la prima illuminazione a LED di quel genere in Europa». L’Antico serve molto al Moderno, come si dimostra il restauro della Fonte di Piazza del Popolo di Faenza, dove l’acqua zampilla senza l’ausilio di pompe. «In realtà, quando si legge il De Architectura di Vitruvio – commenta Agostinelli – può sembrare di essere davanti ad un trattato di bioarchitettura. Questo è l’atteggiamento corretto tra Antico e Moderno: non l’architetto passatista che ricostruisce l’inferriata applicando dei “ghirigori” per renderla “antica”. All’Almagià in Darsena di Città e al Magazzino del Sale di Cervia ho consigliato l’utilizzo di nuovi pavimenti in resina, seguendo il concetto del “neutro architettonico”, cioè usando un linguaggio e materiali contemporanei in un contesto di archeologia industriale».
Avviandosi al termine dell’incontro, Agostinelli introduce un coup de théâtre. Accanto all’esperienza di architetto restauratore, racconta di aver disegnato nel 2004 la propria villa suburbana, recensita fin dal 2005 su questa rivista e pubblicata da chi scrive nel 2012 sul volume Cronache e racconti di Architettura. Racconta di averla disegnata come un’abitazione moderna, per la propria famiglia, su ispirazione della “Musa”  Mira, sua moglie, ma declinando temi antichi: «ho creato due patii e un giardino pensile, che rimanda al tema del sole e quindi al rapporto dell’uomo con la natura, con il trascorrere delle stagioni». La villa rivela il tono riservato dell’antica casa romana, con i patii disposti assialmente in direzione sud-nord e a loro volta separati dal soggiorno centrale, in cui i raggi del sole entrano nei mesi invernali e si fermano sulla soglia in quelli estivi. L’ambiente è dominato da un grande camino sospeso a soffitto di gusto francese, che al di sopra fuoriesce in un leggiadro giardino pensile, rielaborazione ecosostenibile del tetto a giardino come «simbolo dell’Eden» e composto da piante tipicamente mediterranee (melograno, ulivo, gelsomino, corbezzolo, palma, alloro, oleandro, ginestre, agavi).

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