Le torri Hamon di Ravenna non esistono più. Il 16 aprile è cominciata la demolizione anche della seconda delle due rimaste nell’area dell’ex raffineria Sarom compresa tra Candiano e via Trieste nel tratto tra Pala De Andrè e svincolo con la Classicana. Per radere al suolo la prima erano bastate le due settimane precedenti. La memoria di quei manufatti in cemento armato alti 50 metri, torri di raffreddamento dalla particolare forma iperboloide utilizzate nei processi industriali interrotti nel 1985, resterà nel requiem sui social network, nel film Deserto rosso del 1964 e in un museo virtuale nato sul web tra 2019 e 2021.
Si tratta del progetto Remember nell’ambito delle iniziative dell’Unione europea. Lo scopo è promuovere il turismo attraverso la valorizzazione del patrimonio storico monumentale e immateriale dei porti in chiave turistica e la generazione di nuova economia e nuova occupazione. Oltre a Ravenna sono coinvolti altri sette porti dell’alto Adriatico tra Italia e Croazia: Ancona (capofila del progetto), Venezia, Trieste, Fiume, Zara, Dubrovnik, Spalato.
Ogni città portuale ha il suo museo virtuale visitabile al sito www.adrijo.eu con foto, video, testi e animazioni inerenti le eredità storico-culturali (la home page si apre proprio con il fotogramma di Monica Vitti nel film di Michelangelo Antonioni). Il totale dei fondi europei messi a disposizione è 2,8 milioni di cui 290mila assegnati all’Autorità portuale di Ravenna.
Le authority dei porti hanno potuto contare su un partner accademico: il dipartimento di ingegneria civile, edile e architettura (Dicea) dell’Università delle Marche. In particolare a occuparsene sono stati i professori Ramona Quattrini, vicedirettrice del Dicea, e Paolo Clini.
Professoressa Quattrini, qual è il principio ispiratore di questo progetto co-finaziato dal programma di cooperazione transfrontaliera Italia-Croazia 2014-2020?
«L’obiettivo è preservare e promuovere le eredità storiche e culturali delle città portuali dell’Adriatico, sia intangibili come culture e tradizioni, che tangibili come edifici e infrastrutture. L’intento era far capire che i porti non vanno visti come posti da cui tenersi lontani, ma sono un luogo di sedimentazione di culture e ognuno ha le sue specificità. Le Autorità portuali hanno cercato di smarcarsi dal ruolo di gestori delle attività più classiche degli scali per aprirsi ad altri orizzonti. Il tutto cercando di unire i fili tra le due sponde dell’Adriatico».
Il prodotto finale è il museo virtuale?
«Con la collaborazione del nostro dipartimento, soprattutto per gli aspetti tecnologici, e del museo di Zara, per gli aspetti più culturali, sono state scritte le linee guida. Le otto Autorità portuali si sono occupate di acquisire dati, preparare testi, realizzare video e modelli 3D nel periodo da gennaio 2019 a giugno 2022».
Come sono state scelte “le opere” da esporre in un museo virtuale?
«Ogni singolo porto ha indicato le sue specificità, cercando corrispondenze fra Italia e Croazia: costruendo così una storia corale».
È corretto quindi dire che con questo progetto i porti cercano di inserire le proprie storie nell’offerta turistica del territorio in cui sorgono?
«È proprio così, infatti la linea di finanziamento europeo riguarda strumenti innovativi per la cultura e il turismo. Il patrimonio tangibile dei porti, in tutte le sue sfaccettature, ha una valenza turistica. Non dobbiamo concepire il museo come qualcosa che riguarda solo il passato ma anche l’oggi e il futuro».
Le torri Hamon di Ravenna sono una delle “opere” del porto di Ravenna nel museo virtuale Adrijo. Non è una contraddizione abbatterle?
«La cosa non mi sconvolge. Un bene può essere trasformato o anche abbattuto, soprattutto se ne abbiamo una documentazione che preserva la memoria. Non conosco nello specifico la vicenda delle torri Hamon, ma qualcosa che ha valore patrimoniale non deve essere conservato per forza nella sua interezza. È importante seguire o anticipare le necessità del territorio, nel conservare o modificare. Il valore ereditario delle torri, ad esempio, è nel cinema e quello non potrà mai essere cancellato. Ma il territorio deve andare avanti e non si deve bloccare per musealizzare qualsiasi cosa: le trasformazioni sono accettabili e il digitale garantisce che anche i posteri potranno conoscere lo scenario che li ha preceduti».
Così non si finisce per perdere tutta l’archeologia industriale?
«Non sempre ha senso musealizzare un edificio costruito per una funzione produttiva quando questa viene a cessare. Bisogna capire il contesto: se in sostituzione di un edificio del passato c’è qualcosa che porta più valori da più punti di vista, non solo economico, allora bisogna avere un approccio più disincantato. Il “dov’era com’era” è una ricetta che blocca il nostro paese».