Udienza 17 / Il delitto del 1987 resta irrisolto: il 21enne fu rapito e trovato morto dopo dieci giorni. La sentenza dopo appena un’ora di camera di consiglio
La sentenza è arrivata il 22 giugno, dopo un’ora di camera di consiglio – a memoria degli addetti ai lavori una delle più rapide di sempre a Ravenna – che ha messo fine alla diciassettesima udienza del processo cominciato un anno fa. La riapertura del cold case fu nel 2018 con la prima iscrizione in assoluto di un sospettato nel registro degli indagati (nel 1996 c’era stata l’archiviazione del fascicolo). Il dibattimento ha visto le deposizioni di oltre quaranta testi.
Gli imputati erano il 57enne Orazio Tasca, originario di Gela (Caltanissetta) oggi residente a Pavia, il 58enne Angelo Del Dotto di Palmiano (Ascoli Piceno) e il 66enne Alfredo Tarroni di Alfonsine. All’epoca dei fatti i primi due erano carabinieri in servizio alla stazione di Alfonsine, il terzo era un loro amico che faceva l’idraulico nel paese.
La giornata in corte di assise si è aperta, come da programma, con le arringhe difensive. Il primo a prendere la parola è stato l’avvocato Andrea Maestri (difesa Tarroni): «L’atroce, disumano, orribile delitto Minguzzi ha le caratteristiche di un sequestro a scopo di omicidio, di matrice mafiosa». Il legale già in altre occasioni del dibattimento aveva suggerito la criminalità organizzata come pista alternativa da battere per individuare il colpevole. «La relazione del medico legale ci dice che la morte è avvenuta quasi subito dopo il rapimento. Se il movente era economico come l’accusa attribuisce agli imputati, perché uccidere l’unica ragione che avrebbe permesso di ottenere i soldi?».
Per quasi due ore Maestri ha cercato di mettere in fila gli elementi che, a suo parere, sosterrebbero l’ipotesi mafiosa o quantomeno non permettono di definire la colpevolezza del suo assistito oltre ogni ragionevole dubbio. Ad esempio il modo in cui venne trovato il cadavere nelle acque del Po di Volano: legato a una grata da 16 kg con mani e piedi dietro la schiena, il cosiddetto “incaprettamento” che fa parte delle ritualità mafiose. E poi i controlli svolti da Minguzzi, carabiniere di leva alla caserma di Mesola, nei confronti di un pregiudicato dimorante sui lidi ferraresi.
Per poco più di un’ora invece ha parlato l’avvocato Gianluca Silenzi che assiste Del Dotto. Focus dell’intervento sull’alibi: dalle 19 del 20 aprile 1987 il carabiniere marchigiano rimase di piantone per 24 ore (nella notte fra il 20 e il 21 ci fu il rapimento). Così risulta dai brogliacci dei turni. «Non risultano testimonianze che dicano di averlo visto uscire o che abbiano avuto richieste di sostituirlo». Nel suo esame il militare disse anche che quella notte rispose alle telefonate della madre di Minguzzi che non vedeva rientrare il figlio. La donna ha smentito. Silenzi afferma che ci sono due riscontri a favore della versione fornita da Del Dotto: «Il comandante dei carabinieri di Comacchio dice che la mattina del 21 era stato chiamato dai carabinieri di Alfonsine per la scomparsa di Minguzzi. Il vicecomandante di Alfonsine ricorda di essere entrato in caserma alle 7 e di aver trovato il comandante che già sapeva della scomparsa. Come si può spiegare se il primo a denunciare la scomparsa sarebbe stato il cognato di Minguzzi alle 7.40?».
Per tutto il processo Tasca è stato soprattutto una voce. L’imputato è l’unico a non essersi mai presentato in aula dove invece sono state ascoltate le registrazioni delle telefonate, sia quelle ai Contarini che fece Tasca per sua stessa ammissione, sia quelle ai Minguzzi che secondo il perito fonico dell’accusa furono fatte da Tasca ma non per il perito della corte.
In una delle telefonate ai Minguzzi, il sequestratore si sbaglia e chiede di parlare con “Minguzzo”. La storpiatura finale dei cognomi, secondo l’accusa, è un tratto frequente nella parlata di Tasca. L’avvocato invece assicura che sia un tratto comune a molti siciliani: «Sono arbitro di calcio e mi è capitato di arbitrare a Lido Adriano che è come essere a Bagheria per la presenza di molti siciliani. Il mio cognome diventava tutt’altro per molte persone e non credo fossero tutte Tasca».
A pesare sulla posizione di Tasca c’è una intercettazione ambientale captata nell’abitacolo del suo furgone dopo la notifica della riapertura del fascicolo. L’ex carabiniere è da solo e parla con se stesso a voce alta, con rabbia: «Se non c’è quello che si pente». L’accusa ci vede la paura di un colpevole che si augura che nessuno si penta. Per Orsini è solo il disappunto di un impulsivo che vede di fronte il rischio di un processo.