Fuori programma inatteso nell’ultima udienza – in corso oggi, 30 settembre – del processo d’appello per l’omicidio di Pier Paolo Minguzzi, 21enne di Alfonsine trovato morto l’1 maggio 1987 a distanza di dieci giorni dal rapimento con la richiesta di 300 milioni di lire come riscatto.
Nel corso delle discussioni finali delle parti civili, il presidente della corte d’assise ha sospeso l’intervento dell’avvocata Elisa Fabbri (che rappresenta il fratello della vittima, Gian Carlo) per sentire Rosanna Liverani e Anna Maria Minguzzi, la madre 92enne e la sorella 68enne della vittima.
Poche domande a entrambe incentrate su un punto preciso: l’alibi di uno degli imputati, il 61enne Angelo Del Dotto di Ascoli Piceno, ex carabiniere nella stazione di Alfonsine. Gli altri due uomini alla sbarra sono il 60enne Orazio Tasca di Gela e il 69enne Alfredo Tarroni di Alfonsine. Anche Tasca era carabiniere nella stessa stazione, Tarroni era l’idraulico del paese e loro amico stretto.
Nel corso delle udienze di primo grado a Ravenna, Del Dotto aveva raccontato di aver passato la notte del rapimento in caserma a Alfonsine in turno come piantone e in quella notte avrebbe ricevuto quattro telefonate dalla madre di Pier Paolo. Se così fosse, non avrebbe potuto partecipare al sequestro del 21enne studente universitario di Agraria e carabiniere di leva alla stazione di Mesola (Ferrara).
La circostanza è riemersa nella requisitoria della procura generale e poi l’avvocata Fabbri ha sottolineato che quelle dichiarazioni di Del Dotto erano arrivate in primo grado solo dopo la deposizione del comandante della stazione di Alfonsine, Aurelio Toscano, e non era stato possibile un’ulteriore verifica perché nel frattempo Toscano è deceduto.
Sul punto delle telefonate notturne Liverani era già stata interrogata in primo grado e oggi non ha fatto altro che ribadire quanto disse all’epoca: «Non ho chiamato i carabinieri quella notte. Mio figlio doveva rientrare verso mezzanotte e dopo ore di preoccupazione alle 5 decisi di chiamare mia figlia Anna Maria per informarla». Quest’ultima ha confermato che a quel punto il marito andò in caserma di persona.
I tre imputati, nuovamente assenti in aula, si sono sempre dichiarati innocenti, negando collegamenti con la vicenda di luglio 1987: l’omicidio di un altro carabiniere che portò a tutti condanne ultraventennali (già scontate). Tarroni, Del Dotto e Tasca furono arrestati in flagranza a Taglio Corelli, frazione di Alfonsine, dopo una sparatoria in cui rimase ucciso il 23enne Sebastiano Vetrano, raggiunto da un colpo sparato da Del Dotto con un revolver di Tarroni. Quello fu il tragico epilogo di un tentativo di estorsione ai danni di un’altra famiglia di Alfonsine, i Contarini.
L’avvocata Fabbri, nelle sue conclusioni, ha sottolineato anche un episodio raccontato dai fratelli della vittima nei loro interrogatori in primo grado: «Quando arrestarono gli autori della tentata estorsione a Contarini a luglio 1987, i familiari di Pier Paolo erano convinti che fosse arrivata la svolta anche per il loro caso, ricordando il sequestratore che si sbagliò e chiese di Contarini in una delle telefonate per il riscatto in aprile del 1987». E invece quando i due fratelli andarono a rendere omaggio alla salma del carabiniere Sebastiano Vetrano, morto nell’operazione Contarini che portò all’arresto dei tre odierni imputati, furono avvicinati dal pubblico ministero Gianluca Chiapponi che gli disse che i tre arrestati per Contarini non erano collegati al loro caso.
All’avvocato Luca Canella (parte civile Rosanna Liveranni) è toccato il compito di riepilogare gli esiti dell’autopsia sul corpo del 21enne per ricordare la tragica morte con cui finì la sua esistenza: strangolato e poi gettato in acqua.
Infine per i familiari ha preso la parola l’avvocato Paolo Cristoferi (parte civile Anna Maria Minguzzi). «La sentenza di primo grado parla di omicidio di mafia come esecuzione, con un tentativo di estorsione successivo messo in scena solo per massimizzare il profitto. Ma la mafia non fa errori quando decide di fare fuori qualcuno: i corpi degli ammazzati dalla mafia non si trovano, non vengono buttati in un corso d’acqua poco profondo con il rischio che affiori poco dopo. E la mafia non ha certo bisogno di inscenare un rapimento per soldi se il suo obiettivo è un’esecuzione».
Nel tentativo di quantificare il danno subìto, le tre parti hanno avanzato ognuna una richiesta di un milione di euro con una provvisionale di 250mila euro.