Walter Della Monica, una vita tra i poeti

Dagli anni Cinquanta animatore di trebbi, incontri, eventi letterari in città, dal Centro relazioni culturali a tutti i progetti su Dante

Walter della MonicaAppena varcata la soglia del Centro Relazioni Culturali di Ravenna a Casa Melandri, mi imbatto in un attaccapanni dal quale pende un cappello scuro, un capo d’abbigliamento d’altri tempi.

Intorno, alcune scrivanie ingombre di carte e tantissimi libri. Poi da dietro uno scaffale fa capolino Walter Della Monica, mi viene incontro porgendomi la mano. La sua presa è salda, il sorriso gentile, i modi affabili: così si presenta uno dei personaggi ravennati che per decenni ha giocato un ruolo fondamentale nello sviluppo culturale della città. Dopo trent’anni passati alla direzione del Centro Relazioni, ha lasciato il testimone, pur rientrando nel gruppo di volontariato culturale dove ricopre il ruolo di responsabile.
Dal 2013 la gestione del Centro Relazioni Culturali di Ravenna è passata ufficialmente nelle mani del Comune; la svolta ha portato creazione di un nuovo Direttivo, composto da Maria Grazia Marini – dirigente responsabile –, Francesca Masi – addetta al coordinamento scientifico – e Anna Guidazzi – responsabile della Segreteria Organizzativa, con il prezioso supporto di Anna De Lutiis che da anni collabora con il centro e presenta tutti gli autori in rassegna.

Quella di Della Monica è una vita dedicata alla letteratura e alla divulgazione della poesia. Risale al lontano 7 gennaio 1956 il primo “Trebbo Poetico”, tenutosi in una sala dell’asilo comunale di Cervia, dove Della Monica e l’amico Toni Comello  intrattennero con inaspettato successo un pubblico composto da gente comune, compresi pescatori e casalinghe. Sempre a lui si deve l’ideazione del “Premio Guidarello” al giornalismo. Nel 1974, quando ancora lavorava come operatore turistico, Della Monica promosse i primi “Incontri letterari” del Centro Relazioni Culturali, alle cui iniziative si dedicherà a tempo pieno dal 1984. Nel ’95 prende invece vita il “Progetto Dante”, con la prima lettura integrale in Italia della Divina Commedia, raccontata e commentata da Vittorio Sermonti nella Basilica di San Francesco. Terminata nel 1997 l’imponente impresa, il “Progetto Dante” prosegue dal 1998 con la “La Divina Commedia nel mondo”: una rassegna internazionale con lo scopo di far conoscere dove, come e quando è stato tradotto e diffuso il poema dantesco. Sempre a Della Monica si deve, infine, la rassegna annuale “Un poeta da ricordare” realizzata a Marina di Ravenna.

Trebbo poetico a CerviaLe capita spesso di ricordare come l’esperienza del “Trebbo Poetico” sia stata una fucina per le sue successive attività. Ci racconta qualcosa dei personaggi che ha avuto modo di conoscere?
«Con tutti i maggiori poeti di allora c’è stata una vera amicizia che si è protratta nel tempo: mi riferisco a Ungaretti, Quasimodo, ma anche a Montale, Vittorio Sereni, Giorgio Caproni. Di questi in particolare mi è rimasto impresso Ungaretti, perché ci è stato sempre molto vicino durante gli anni del Trebbo; non te lo aspetteresti da uno dei capiscuola dell’ermetismo, ma era espansivo, rideva molto e faceva battute. Rispetto a lui era molto più discreto Montale. Quasimodo aveva una personalità pungente ed era piuttosto acido… All’epoca aveva molti seguaci al contrario di oggi: vorrei tanto che fosse valorizzato per il merito ricoperto in ambito letterario. Riguardo Pasolini, il nostro incontro più significativo è stato a Valdagno, una delle città “capitali del capitalismo”: con Pasolini c’era da stare all’erta. Invece il pubblico lo accosle molto bene. Io e Comello abbiamo girato per molte località del Paese e spesso questi grandi poeti venivano con noi per partecipare all’evento, e lo facevano volentieri. In queste occasioni erano acclamati dal pubblico come divi. Tutto questo è difficile da immaginare oggigiorno».

Nell’intervista radiofonica di Sergio Zavoli “I giullari della poesia”, del 1960, racconta di una curiosa notte trascorsa in stazione a Monaco di Baviera durante quegli anni di incontri poetici itineranti…
«Dopo tutti questi anni quello è il ricordo che più mi è rimasto impresso. Era pieno di ubriachi quella sera Monaco di Baviera. Io e Comello ci trovammo senza soldi allora, anziché andare in albergo, passammo la notte lì. E assistemmo a una strepitosa manifestazione di umanità fuori di testa. Parlavano tutti tedesco ma ci divertimmo un sacco ad osservare quella insolita passerella. Forse ci fermammo proprio per quello, chissà».

Del suo sodale Toni Comello cosa mi può raccontare?
«Per me Comello ancor oggi rappresenta il non plus ultra dell’interpretazione dei poeti, tant’è vero che era sostenuto moltissimo dai poeti stessi. Ungaretti l’aveva sin dall’inizio colto nel segno. Era uno straordinario interprete e non mi è mai capitato di sentirne un altro capace di eguagliarlo in tanti anni di vita. Preparatissimo, colto, dotato di questa magia di immedesimarsi nella poesia secondo quello che era la sensibilità del poeta. Erano tutti presi, molto appassionati, dal suo recitare».

Comello e Della MonicaIl vostro era un rapporto stima o di amicizia? L’avete portato avanti negli anni?
«Sì, di molta stima ma anche di amicizia. E l’abbiamo coltivat anche dopo la fine dell’avventura del Trebbo. Dopo la sua scomparsa, ancora adesso sono in contatto con la sorella, che ogni tanto viene a Ravenna. Dopo l’esperienza del Trebbo, Comello ha intrapreso la sua carriera di teatro sperimentale a Milano, soprattutto dedicato ai giovani, quando invece, secondo me, poteva continuare questa attività di interprete di poesie».

Passiamo al Premio Guidarello. È nato come strumento per promuovere e lanciare la formula “vacanze-famiglia”. Ma c’è una motivazione più personale che l’ha spinta in questa direzione, magari legata alla Romagna?
«Allora lavoravo per la Viaggi Generali, un’agenzia turistica che gestiva villaggi e alberghi, in tutto 3.500 letti. Si trattava di lanciare questa formula, nei villaggi soprattutto, e ci si chiedeva come fare. Si pensò alla fine di escogitare questo premio giornalistico, per coinvolgere le maggiori testate dei settimanali: regalavamo dei soggiorni gratis ai lettori, purché i giornali promuovessero al loro interno la formula “vacanze-famiglia”. Fu un successo enorme. Dietro la creazione originaria del Premio Guidarello non c’era una particolare motivazione personale: ero responsabile dell’offerta turistica, e quindi l’ideazione del Premio rientrava in una vera e propria strategia commerciale».

Qual era il suo ruolo nel Premio Guidarello? E quali personalità hanno fatto parte della giuria?
«Io raccoglievo il meglio dei testi riguardanti Ravenna e la Romagna, quelli ritenuti da me più interessanti. Ancora oggi scelgo e passo alla giuria. Non intervengo per nulla nelle valutazioni, lascio tutto in mano a loro. In passato abbiamo avuto presidenti molto importanti, tanto per citarne alcuni: Francesco Serantini, un grande scrittore romagnolo e il giornalista Massimo Dursi, e poi i notissimi Tonino Guerra e Sergio Zavoli… Fino a quando il premio ha fatto capo al Comune di Ravenna ho sempre chiamato a far parte della giuria scrittori o giornalisti che stimavo personalmente».

Nel ’74 lei promuove insieme a Mario Lapucci i primi “Incontri letterari”. Com’è nata l’idea di collaborare con il Centro Relazioni Culturali?
«Il primo degli “Incontri” è avvenuto proprio l’8 aprile del 1974, con ospite Carlo Sgorlon e il suo libro Il trono di legno, per il quale l’anno prima aveva vinto il Premio Campiello. Il tutto è nato dal fatto che ero amico del libraio ed editore ravennate Mario Lapucci. All’epoca Lapucci mi parlò del successo di vendite de Il trono di legno e gli dissi “ma io lo conosco Sgorlon”, e lui “allora perché non lo invitiamo”?. E così fu. Naturalmente, grazie al “Premio Guidarello” e al “Trebbo Poetico” potevo vantare molte conoscenze nell’ambiente letterario. Così contattai personalmente Carlo Sgorlon, che accettò subito di partecipare. Lo stesso accadde al secondo appuntamento degli “Incontri letterari”, un mese esatto dopo, con Giuseppe Berto, che presentò il suo libro Oh, Serafina!. Ricordo che andammo al ridotto dell’Alighieri: era colmo di gente. All’epoca ci si teneva in contatto tramite lettere, non con le mail come oggi. Pensi che sono passati ormai 40 anni…».

Da che anno gli “Incontri” si sono cominciati a fare a Casa Melandri?
«Ma io ti dirò, non so se c’era già allora Casa Melandri. C’era l’edificio, quello sì. Mi ricordo che quand’ero bambino qui le donne vendevano le uova: venivano con la sporta piena di uova, si mettevano qua sotto, dove ora c’è sala D’Attorre, tutte in fila. Io venivo con mia madre. Poi la palazzina è stata adibita a garage, e infine ha avuto luogo la ristrutturazione, fatta molto bene da Comune, e opportuna, con uffici e sala conferenze pubblica».

C’è qualche personaggio, avuto come ospite, che l’ha colpita in qualche modo e se ne ricorda tutt’ora?
«Di qui ne sono passati più di mille, perciò non ho ricordi particolari, tranne in riferimento agli amici. Ora stavo pensando a Emanuele Severino, il filosofo; mi pare fossimo al Rasi quand’è venuto. Ogni tanto ripensandoci mi vengono in mente questi personaggi di grande spessore intellettuale…».

Walter della MonicaParliamo ora del “Progetto Dante”. Nel 1990 sono iniziate le “rivisitazioni storiche” sotto forma di processo: nel ’92 è stato il turno di Paolo e Francesca, e per l’occasione ha chiamato Vittorio Sermonti affinché leggesse il V canto dell’Inferno. Mi può raccontare il passaggio che l’ha portata alla realizzazione della prima lettura pubblica integrale della Divina Commedia?
«È andata così: prima invitai Vittorio Sermonti a Ravenna per presentare, man mano che uscivano, i tre volumi della Divina Commedia da lui curati: L’Inferno di Dante nel gennaio del 1989, Il Purgatorio di Dante nel febbraio del ‘91 e Il Paradiso di Dante nell’aprile del ‘93. La supervisione di Gianfranco Contini per i primi due e di Cesare Segre per il terzo avvalorava maggiormente l’opera intrapresa da Sermonti. Nel frattempo sono nate le “rivisitazioni storiche”. Il presidente del Tribunale di Ravenna, Paolo Scalini, era un nostro caro amico, e così ci venne l’idea di promuovere dei processi immaginari a sfondo storico-letterario: iniziati nel 1990 con Teodorico, sono proseguiti nel ’91 con la Setta degli Accoltellatori, l’anno dopo con Paolo e Francesca, e infine si sono conclusi col  processo al Passatore nel 1993. Nel 1992, in occasione del “Processo per la tragica storia di Paolo e Francesca”, invitai dunque Vittorio Sermonti a leggere pubblicamente il V dell’Inferno; il pubblico gremiva il teatro. Grazie al beneplacito dell’allora direttore del Centro Dantesco, padre Enzo Fantini, la sera del 3 aprile 1993 organizzammo nella Basilica di San Francesco, a Ravenna, la lettura di Sermonti dell’ultimo canto del Paradiso. Il successo fu enorme e il pubblico che riempiva la chiesa si esibì in un applauso interminabile. A questo punto io e Sermonti ci chiedemmo: “perché non fare la lettura integrale di tutte tre le cantiche”?. E così nacque il Progetto Dante con la prima lettura pubblica integrale della Commedia. Non fu però semplice realizzarlo, perché Sermonti si fece pagare, e non poco: oltre cento milioni delle vecchie lire, più le spese. La vera impresa la intraprendemmo noi, del Centro Relazioni Culturali, per trovare tutti quei soldi. Allora ci misero la faccia e i soldi il direttore dell’Associazione Industriali di Ravenna, Giovanni Costa, e un giovane e dinamico manager, Giuseppe Parrello, che aveva il compito di rimettere in sesto la Calcestruzzi del Gruppo Ferruzzi. In seguito Parrello ricoprì anche la carica di presidente dell’Autorità Portuale. Il sostegno finanziario del “Progetto Dante Ravenna” andò a buon fine anche grazie all’interessamento di queste persone».

Qual’è la storia della sua passione per Dante? C’è un canto in particolare che le piace di più rispetto ad altri?
«La mia passione per Dante nasce dalla scuola, per la quale, ai tempi, gli studenti dovevano addirittura sapere alcuni canti a memoria. Personalmente, ho una predilezione particolare per il XXXIII del Paradiso. Non dimentichiamo poi che i “Trebbi Poetici” si aprivano ogni volta col Sommo Poeta. Anche nei borghi, nelle campagne, ovunque andassimo: Dante c’era sempre. E Comello lo esponeva a memoria: lui imparava tutto a memoria, non l’ho mai visto con un foglio in mano. Io stesso mi sono chiesto tante volte come facesse».

Dalla lettura integrale della Commedia di Sermonti a “La Divina Commedia nel mondo”, come mai questo passaggio?
«Nel 1997 sono terminate le letture della Divina Commedia. A un certo punto mi sono chiesto: “E adesso? Adesso per portare avanti Dante cum a-s fal?” L’idea mi venne suggerita da un volume  dell’editore Longo, che s’intitolava L’opera di Dante nel mondo, a cura del professor Enzo Esposito, dell’università di Roma. Mi misi in contatto con l’autore, allora considerato il più importante esperto di bibliografia dantesca, e andai a Roma per incontrarlo. Il professor Esposito mi fornì un vecchio elenco riportante le traduzione fino ad allora fatte della Commedia dantesca: in tutto ne risultavano oltre una trentina. Noi oggi ne contiamo più di cinquanta. Con la consulenza del professore, io e Sermonti scegliemmo le tre traduzioni più recenti, e invitammo a Ravenna i traduttori, che decisero di aderire al progetto: l’angloamericano Allen Mandelbaum, il cinese Huang Wenjie, al quale telefonai personalmente a Pechino, e Jacqueline Risset, una conoscenza del Trebbo. All’epoca c’era ancora Sermonti, sempre ben pagato s’intende; proseguì per altri tre anni prima di lasciarci. L’unica cosa che ancora non mi so spiegare è come, dopo quasi sette secoli dalla morte di Dante, lo Stato Italiano, il Ministero della Cultura, la Società Dante Alighieri o altri organi di questo tipo non abbiamo mai pensato di fare una ricerca a tappeto, per sapere esattamente in quali paesi è stata tradotta l’opera di Dante. Lo abbiamo dovuto scoprire noi, e siamo arrivati a ben 55 traduzioni. Roba da matti. Com’è possibile che ci siano queste lacune, questa indifferenza sulla fama di Dante nel nostro paese? Schérzegna

Poeti in RomagnaPer concludere, torniamo alla nostra città. Molti ritengono che lei abbia rinnovato negli anni, e profondamente, il panorama culturale di Ravenna…
«Allora pensi male, io mi sono limitato a collaborare. Ho interesse per queste cose, mi diverto… Per me è un piacere, non mi ha mai obbligato nessuno, è una scelta. Questo deriva da un passato lontano, un interesse e una passione verso la letteratura e la poesia in particolare, che da un certo momento della mia vita ho avuto il privilegio di coltivare».

 Crede che l’iniziativa culturale a Ravenna possa ancora migliorare?
«Certamente. Ravenna è già una città molto attiva sul piano culturale. Ritengo che, sempre parlando dell’aspetto culturale, per certi aspetti, sia più dinamaica Ravenna rispetto a Bologna. Ci sono molti interessi; noi lo vediamo anche qui, ogni venerdì, quando Sala D’Attorre si riempie di persone: da 40 anni a questa parte la gente ha continuato non solo a frequentare gli incontri, ma è aumentata nel tempo. Sono ravennate e ho avuto modo di valutare una costante evoluzione dal punto di vista culturale e anche sociale. Ritengo sia una città che si è imposta nell’ambito culturale rispetto a molte altre, non dico dell’Italia, ma sicuramente della regione».

Quindi è felice della Ravenna attuale?
«Si, felicissimo, molto. Bisognava conoscerla 30-40 anni fa: se ti volti indietro un momento ti viene l’istinto di scappare, andare via come un fulmine. È una città che si è sviluppata moltissimo nel tempo se penso alle manifestazioni, alle attività culturali che si organizzano in vari campi dell’arte e del sapere e alla partecipazione del pubblico. Chi è un po’ aggiornato su questo piano, si rende conto che ogni giorno emergono delle proposte nuove. E questo va bene, soprattutto per i più giovani. Ravenna non è una città morta: una volta era considerata tale, chiusa in se stessa, anche dai poeti e scrittori viaggiatori. Ed era così, ma ormai da tempo non lo è più».

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