Matthieu Mantanus sul podio a Ravenna l’8 dicembre 

Il direttore d’orchestra si racconta 

MatausenGiovedì 8 dicembre, al Concerto di Natale della rassegna “Capire la Musica“ promossa da Emilia Romagna Cocerti nella Chiesa di San Giovanni Battista (ore 21), sarà Matthieu Mantanus a dirigere la Young Musicians European Orchestra. Intraprendente, carismatico e comunicativo, Mantanus nasce come strumentista, si trasforma in direttore d’orchestra e negli ultimi anni si fa conoscere al grande pubblico in qualità di fondatore della Jeans Symphony Orchestra e di divulgatore di musica accanto a Fabio Fazio nella trasmissione “Che tempo che fa”. Recentemente è stato a Ravenna per presentare Beethoven e la ragazza coi capelli blu, il suo ultimo libro salito in poco tempo in cima alle classifiche.

La musica è una parte fondamentale della tua vita. Perché hai scelto proprio lei come principale modalità di espressione?
«Non è una vera e propria scelta. È nato tutto con grande naturalezza e semplicità: nei miei primi anni è emerso chiaramente che avevo una particolare facilità nel rapporto con la musica, più che con altre discipline. Crescendo il legame con i miei strumenti, allora al pianoforte affiancavo il violoncello, ha preso un posto preponderante nella mia vita al punto che quando ho dovuto fare una scelta professionale, ho capito che non sarei potuto vivere lontano da loro. Dopo il diploma di perfezione però il mio percorso artistico successivo è stato molto più erratico di quanto avessi pensato: mi sono poco a poco reso conto che sarebbe stato impossibile rientrare ad ogni costo in un ruolo predefinito, un “direttore d’orchestra” o “un pianista” così come uno se li immagina. E tutte le difficoltà sul mio percorso mi hanno portato a dover scoprire chi ero veramente, accettarlo io stesso e infine farlo accettare agli altri. E crearmi così uno spazio professionale “su misura”: direttore d’orchestra, pianista, divulgatore, scrittore, e conduttore televisivo».

La tua adolescenza l’hai trascorsa sui banchi del conservatorio di Losanna. Com’è stato per te quel periodo?
«I ricordi più lontani – e belli – che ho sono i momenti passati all’orchestra giovanile del conservatorio di Losanna nelle file dei violoncelli. Per questo raccomando sempre, a chi mi chiede consigli su come iniziare, di fare musica insieme ad altre persone, che siano gruppi, cori o orchestre. Questa è la chiave per vivere il rapporto con la musica pienamente. Ci saranno talmente tante ore passate in solitudine con il proprio strumento, in un corpo a corpo al contempo doloroso e gratificante, che la condivisione della propria musica con gli altri a un certo punto diventa fondamentale».

A 17 anni, dopo aver conseguito il diploma di perfezionamento, ti trasferisci a Roma e inizi direzione d’orchestra. Sarai allievo di importanti maestri, primo fra tutti Giuseppe Sinopoli, poi Jorma Panula, Gianluigi Gelmetti e Lorin Maazel. Perché hai scelto di diventare direttore d’orchestra? Cosa ami di più del tuo lavoro? 
«Ho fatto questa scelta proprio perché mi mancava il rapporto con gli altri: mi hanno parlato della direzione d’orchestra e mi sono buttato a capofitto in questa nuova via.
Pensavo sarebbe stato un proseguimento del mio percorso, invece è come se fossi tornato bambino: l’orchestra mi sovrastava, e non riuscivo a controllarla, né tanto meno a domarla. Così, come per gli altri strumenti, mi sono serviti quasi dieci anni per riuscire a fare la musica che volevo e che sentivo insieme all’orchestra. E quando finalmente ci sono riuscito, l’effetto è stato dirompente. Nella direzione d’orchestra, contrariamente al pianoforte, quello che conta di più è l’aspetto umano. Il rapporto che si crea tra un direttore e i professori dell’orchestra è come un incantesimo. Se funziona, la musica sgorga e si costruisce rapidamente. Se non funziona – e come nei rapporti umani, sono mille e impercettibili le ragioni per le quali può non funzionare – tutto è vano. Ogni incontro con un’orchestra è la porta aperta verso momenti di un’intensità unica, o verso un disappunto certo. Bisogna saperlo, accettarlo, e gestire entrambe le situazioni».

Matthieu MantanusNel corso della tua esperienza è scaturita in te un’importante riflessione a riguardo della musica, che ti ha portato a togliere il frac e fondare la Jeans Symphony Orchestra. Cosa ti ha spinto a farlo?
«È nata perché mi sono reso conto di due punti fondamentali. Il primo è che la musica che dirigevo era in grado di colpire con incredibile profondità persone completamente estranee al pubblico della classica. Il secondo è che queste stesse persone si sentivano respinte da tutto il contesto che caratterizza i nostri concerti: le regole, la sufficienza, l’iper-specializzazione, la lunghezza dei tempi, ecc… Iniziando dal frac, ho rimesso in discussione alcuni capisaldi della nostra tradizione per poter comunicare con un pubblico sempre più ampio».

L’inizio è stato facile?
Tutt’altro. All’epoca delle puntate di “Che Tempo Che Fa”, fui molto criticato per queste scelte; la paura era di svilire un’arte secolare rovinando le sue tradizioni. Anche la TV faceva paura: un mezzo identificato con il trash, con il quale un mondo profondamente intellettuale non voleva avere a che fare. Da allora, ho passato il tempo a spiegare che le cose non sono così scontate. Che la musica è molto di più del contesto nel quale viene suonata, che appartiene a tutti e che il nostro compito in quanto interpreti era proprio di portarla a tutti. E che per compiere quest’opera quasi missionaria, dobbiamo accettare a volte di lasciare la nostra “divisa” (intesa come l’insieme delle consuetudini che accompagnano la nostra vita) e lavorare partendo dal mondo al quale ci vogliamo rivolgere. Cosa cerca, e sopratutto come può la musica entrare nel “campo visivo” di un ventenne di oggi? O in quello di un abitante di una casa popolare? O di uno spettatore di Rai3? Queste sono le domande che mi pongo quando elaboro un nuovo progetto del JeansMusic lab».

Jeans SymphonyMusicista, direttore d’orchestra e anche scrittore: sei un’artista eclettico e versatile. Cosa ti ha spinto a sperimentare una forma di espressione così diversa dalla musica quale è la scrittura?
«Io non lo avrei mai immaginato. Sono stati gli editori a propormi di trasformare questo modo di raccontare la musica in libri, e ho accettato la sfida perché mi sono reso conto che poteva rappresentare un “canale” supplementare di comunicazione con il pubblico. Adoperando un linguaggio, quello della parola, più compreso del linguaggio musicale. Scrivere è stato un piacere incredibile».

Beethoven e la ragazza coi capelli blu, edito da Mondadori, è diventato in brevissimo tempo un best seller. Quali corde pensi di aver toccato nel lettore per essere riuscito ad arrivare a così tante persone?
«Best seller mi sembra un’appellativo esagerato! Sembra piacere, e questo mi riempie di gioia. Ecco una piccola storia che ben riassume l’effetto: un giorno una persona mi racconta che entra in camera di sua figlia tredicenne e la scopre sul letto ascoltando musica e leggendo un libro. Il libro era il mio e la musica era Schubert. Le ha detto che avrebbe scritto al nonno che tentava da anni di parlarle di musica classica per dirgli le emozioni che sentiva ascoltando questo compositore. Ecco, questo volevo ottenere: i pochi gesti sul palmare che la guidavano a questo repertorio, la curiosità di ascoltarlo e la libertà di trovare emozioni e sentimenti personali ascoltando. Sembra poco, ma è una rivoluzione».

Non è la prima volta che vieni in città: il tuo prossimo appuntamento sarà l’8 dicembre per il tradizionale Concerto di Natale. Cosa pensi di questa iniziativa e dei suoi riflessi nei piccoli teatri della Romagna?
«Innanzitutto per me tornare a Ravenna è un tuffo indietro negli anni… Pensa la mia prima scrittura da direttore, saran stati 15 o 16 anni fa, l’ho ottenuta proprio qui, e grazie al Maestro Olmi. Dunque ho un legame particolare con questa città. Poi ho subito accettato con enorme piacere la proposta del Maestro, proprio perché questa idea di girare per la provincia con delle prove aperte è straordinaria: una musica aperta verso la società. Vedi, il problema è che noi non vediamo ancora abbastanza la musica come uno strumento di valorizzazione e sviluppo sociale: in realtà permette di trasmettere valori importanti per la società, ascolto, rispetto, collaborazione. Questa è la musica. E a Ravenna questo aspetto emerge fortissimo. Non vedo l’ora…».

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