La nostra intervista alla compagnia che porta a Lido Adriano la satira di Café Berlin
Da dove è nato il progetto di Café Berlin?
«È nato due anni fa, è stata una lavorazine lunga. Stavo facendo una ricerca sugli anni ’20, che secondo me sono anni cardine per la formazione della cultura contemporanea, e ho conosciuto Kurt Tucholsky. Non si può mai dire come nasce uno spettacolo, ma ho trovato che la sua idea di fallimento fosse affascinante perché oggi nella nostra società non è pù consentito fallire, come se il fallimento fosse la negazione dell’esistenza».
“Ho fallito, ma con gusto” scriveva Tucholsky…
«Tucholsky è ironico, sarcastico, cinico, ma allo stesso tempo è un sognatore. Il fallimento vissuto nel modo giusto è la via per conoscere sé stessi, per rompere il guscio in cui siamo intrappolati. Il compito dell’arte è essere utile e non essere intrattenimento. Questa idea è un’utopia ed è un fallimento essa stessa».
Gli anni in cui viveva Kurt Tucholsky e in cui è ambiantato lo spettacolo sono gli anni della Repubblica di Weimar, un momento di sconvolgimenti e contrasti in cui sembrava potesse accadere di tutto e alla fine è accaduta la cosa peggiore perché è arrivato il Nazismo… Credi ci sia attualità in quella confusione?
«Credo che la Repubblica di Weimar abbia molti tratti in comune con noi sia a livello di persone che di società. Era un momento di grave crisi economica e di tensioni, ma fu anche un periodo esplosivo in cui l’arte ha toccato uno dei suoi livelli pià alti e Berlino era un centro di libertà. I personaggi dello spettacolo pensano di poter cambiare la vita, di poter spingersi oltre».
Tucholsky non è molto rappresentato in Italia, perché secondo te?
«In Germania è molto conosciuto e amato, ma non ha mai scritto con una bandiera in mano ed era attaccato dai conservatori come dai comunisti e questo ha penalizzato i suoi testi negli anni della dittatura, ma anche dopo la guerra. Non accettava verità dategli da altri. Anche per questo i suoi libri furono bruciati durante il nazismo…»
Il sottotitolo dello spettacolo è “kabarett bordello”, cosa intendi con questa definizione?
«Lo spettacolo si svolge dentro un’anima che è un bordello e i protagonisti sono puttane. Potremmo dire che è uno spettacolo “puttanocentrico” che vuole essere una spinta alla vita. Abbiamo ripensato kabarett degli anni ’20 che mescolava ironia a canzini storte e dissonanti alla Kurt Weill. Pur essendo un dramma è musicale. Sono tre ore di musica. I personaggi tentano di trovare la loro libertà attraverso la canzone composte da maestro Airoldi».
Siete un gruppo indipendente che è stato prodotto dal Teatro Elfo-Puccini che è diventato, forse suo malgrado, un’istituzione. Come è stata questa commistione?
«Non solo ci hanno prodotto, ma hanno lasciato che il debutto fosse nel nostro spazio teatrale, quindi hanno “obbligato” i loro abbonati a venirci a cercare, a volte facendoli perdere… Credo che l’Elfo sia uno dei pochi posti istituzionali che hanno ancora uno sguardo aperto».