«Il mio film sulla vita vera dei giovani veneziani, altro che set hollywoodiani»

Intervista al regista ravennate Yuri Ancarani, il 10 giugno all’arena della Rocca Brancaleone con il suo ultimo lavoro girato in laguna

Atlantide Yuri Ancarani

Un film che corre veloce nel cuore della laguna di Venezia inseguendo le vite di un gruppo di giovani locali fra feste, sballi, gare folli coi barchini truccati, riti di iniziazione, amori e abbandoni, prove di virilità e regole di inclusione/esclusione dal gruppo. Ci sono questo e molti altri piani di indagine in questo bel lavoro di Yuri Ancarani – atteso alla Rocca Brancaleone di Ravenna in occasione della proiezione di venerdì 10 giugno, dalle 21.30 – che rende sullo schermo una Venezia finalmente reale, ben distante dalla versione hollywoodiana o da supermercato a cielo aperto che soddisfa ogni anno le aspettative di migliaia di visitatori.

Il film segue in particolare la vita dei due protagonisti – Maila e Daniele – e senza script, senza attori professionisti tranne un’unica eccezione, con rari interventi di fiction ma sempre basati su avvenimenti reali, senza set o luci e grazie a una telecamera ad altissima risoluzione raggiunge l’obiettivo di raccontare da vicino e in un las- so di quattro anni le vite degli adolescenti della laguna, quelli che sfrecciano e a volte muoiono al largo del centro. Presi da sogni di soldi e successo, donne e primati, sordi ai valori e alla lentezza superata dei vecchi, richiedono solo “rispetto” mettendo a nudo una disperazione esistenziale simile a quella di tanti coetanei in altri luoghi; comunicano un senso di vuoto così transgenerazionale da creare un’opera che riesce a essere universale.
Contattiamo Ancarani – film e videomaker ravennate già noto a livello internazionale – per fargli qualche do- manda su questo ultimo lavoro.

Yuri, perchè hai scelto Venezia?
«È stata per caso una buona intuizione, soprattutto se pensi a cosa sarebbe successo con una produzione lontana nel momento dello scoppio della pandemia: Venezia è vicino a dove vivo, a due ore da Ravenna e Milano. Poi, tutti credono di conoscere questa città – sempre rappresentata come l’ha vista Woody Allen – ma in realtà non vedono la vita reale, avvenimenti che nel loro piccolo sono giganti. Girare a Venezia è stata una sfida anche dal punto di vista del lavoro: la città ospita 10 set all’anno di cui quasi la metà hollywoodiani secondo una visione sempre uguale».

In effetti, il set è la laguna.
«I veneziani stanno in laguna. A Venezia la periferia non esiste: i veneziani vivono a Castello e a Cannaregio, perchè da lì è comodo uscire subito in acqua. Come in altre città, dove il centro si raggiunge in 10 minuti, è sba- gliato usare la parola periferia perchè in realtà è una parola che sposta semplicemente i problemi. Comunque la conferma di essere riuscito nell’idea di catturare la vita di Venezia l’ho avuta tramite i giudizi dei veneziani. Ci ho messo una vita a visitare i posti dove vanno i veneziani, le isole abbandonate o in parte utilizzate come luoghi di incontro e di festa. Sant’Andrea – il punto di accesso delle imbarcazioni –, isole come Pellestrina o bellissime come San Francesco del deserto: pensa che da quando esiste il cinema, San Francesco non è mai stata utilizzata come set».

E poi c’è la vita dei protagonisti Daniele e Maila, dei loro valori e domande.
«Quando ho visto quei ragazzi ho pensato allo sbandamendo della giovinezza, ai rituali e alla vita dei gruppi che penso siano universali. Per creare la struttura del film mi sono basato sulle storie che loro mi raccontavano ma anche sulla mia memoria di adolescente a Ravenna. Posso dire che questo è anche un film autobiografico perchè ho vissuto a Ravenna la stessa situazione dei ragazzi nel film. Ho cercato un luogo che nel 2020 mi potesse ritrasmettere le vicende degli anni ’90, le gang, la competizione, i motorini truccati, quella dimensione che poi mi ha fatto fuggire dalla mia città dove gli adulti promuovevano valori, impegno politico. Ma dove la vita di strada era del tutto diversa».

Entrare in contatto con loro non sarà stato semplice ma ripercorre un’abitudine di lavoro che hai da sempre, fin dalle prime opere, con un occhio privo di giudizi.
«Entri piano, come ospite, e cerchi di capire. È il mio approccio ma solo fino a un certo punto documentaristico: cerco di mantenere un atteggiamento di rispetto verso le persone che mi dedicano tempo. Ovvio che c’è il punto di vista dell’ospite, silenzioso e privo di giudizio ma la vita dei protagonisti parla da sola: loro guardano la vita con innocenza, quasi senza comprendere quello che vivono. Da questo punto di vista credo che il mio film precedente The Challenge – girato in Qatar – e Atlantide possano essere considerati un dittico sul tema della regressione».

Yuri Ancarani RegistaHai lavorato senza copione, spesso in diretta. Come hai girato e hai scelto il montaggio?
«Maila è la struttura del film che ti porta fino alla fine. Le scelte sono state dettate dal percorso naturale della vita dei due protagonisti, dalle storie e persone attorno a loro che rendevano il contesto. Ci sono rari momenti di fiction come quello della lancia dei finanzieri che insegue i ragazzi che spacciano, girato come un poliziesco degli anni ’60 ma che si basa sul racconto che mi hanno fatto i finanzieri. Del resto ho girato spesso in notturna, velocemente, perchè i ragazzi si spostano così e di notte: a un certo punto ho capito che al posto delle luci potevo usare solo la luna piena e i faretti dei barchini, colorati come nelle disco di Riccione. Alla fine ho girato tanto, troppo: i giorni di ripresa effettivi sono stati più di 90; calcola che per un film se ne impiegano di solito 40. E ho dovuto tagliare tanto: ti dico solo che il primo montaggio durava 2 ore e mezzo».

La scena iniziale è bellissima…
«È il momento dove ancora c’è leggerezza, una scena registrata in 2-3 ore dove ho giocato con la telecamera. Io inseguivo i ragazzi che non si volevano far riprendere.
Poi seguono le situazioni pesanti, i distacchi, i litigi e la morte. Daniele l’ho scelto per la sua faccia sofferente: per il film ha dovuto rivivere alcuni traumi della sua vita che si conclude con la fiction della sua morte, nel primo finale. Ma la morte è un fatto reale, di cronaca costante nella vita di questi ragazzi».

E il secondo finale?
«È una sorta di happy end che molti si aspettano nel film, quella che ormai tutti vivono dal divano di casa mentre la vita scorre davanti loro. È difficile fare un film tragico con l’happy end ma credo di esserci riuscito anche grazie alla musica».

Musica da orchestra e il genere trap che ascoltano i ragazzi oggi…
«Il lavoro sulla musica è stato decisamente complicato perchè mette insieme generi molto diversi: la traccia trap di Sick Luke che ascoltano i ragazzi adesso (ma forse è già tardi), la techno anni ’90 che fa parte del mio immaginario e l’orchestrale di Lorenzo Senni e Francesco Fantini che ormai è entrata nell’immaginario collettivo come musica da film».

Il secondo finale è aperto: immaginifico e senza uno stacco di camera.
«È un’inquadratura semplice, non ci sono effetti speciali, semplicemente la camera si inclina. Non è una novità ma un tentativo – già ampiamente utilizzato – di portare lo spettatore oltre all’immagine, oltre lo schermo. Kubrick in questo è un gran maestro».

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