«Tutta la bellezza del violoncello», secondo il direttore “rock” di Sanremo

Enrico Melozzi guida l’invasione dei 100 Cellos al Ravenna Festival: «Cerchiamo di rompere gli schemi. La vittoria con i Maneskin? Per l’arrangiamento ho ricevuto complimenti in tutte le lingue…»

Enrico Melozzi e i 100 Cellos (foto Zani/Casadio)

Enrico Melozzi e i 100 Cellos (foto Zani/Casadio)

Divenuto improvvisamente popolare grazie al Festival di Sanremo – e in particolare per la vittoria, con i suoi arrangiamenti, dei Maneskin – Enrico Melozzi oltre a essere un affermato direttore d’orchestra è compositore e in primis violoncellista. Ideatore e protagonista con Giovanni Sollima del progetto “Cellolandia”, nato 10 anni fa in seno al Teatro Valle occupato e che torna al Ravenna Festival a sei anni dalla prima volta – con la monumentale orchestra dei 100 Cellos – fino al 19 giugno ad “invadere” la città, per una sorta di festival nel festival (a questo link il programma).

Melozzi, perché il violoncello?
«Innanzitutto perché sono violoncellista… Ma la cosa bella è che si può fare lo stesso esperimento con tutti gli altri strumenti al mondo – le 100 viole, i 100 contrabbassi, i 100 tromboni – ma posso assicurare che è impossibile riuscire a raggiungere la bellezza, la poesia, l’eleganza, l’espressività, l’estensione che ha il violoncello, con cui si riesce a suonare davvero di tutto. Il nostro diventa un evento che non può non commuovere. Ci hanno anche provato a imitare, ma è impossibile riuscire a replicare quello che abbiamo messo in piedi: dietro infatti c’è un lavoro enorme di arrangiamenti, è tutto scritto per i nostri musicisti, c’è un sapere alla base, ci sono decenni di esperienza come arrangiatori e compositori. Io e Giovanni (Sollima, ndr) siamo violoncellisti, ma anche compositori onnivori, amanti anche della musica leggera».

La vostra sembra anche una missione per abbattere le barriere all’ingresso che sembrano accompagnare la musica classica. È effettivamente così?
«Certo. La musica classica, così bella, così “alta”, non riesce a penetrare nel cuore del grande pubblico. E spesso è relegata a trasmissioni notturne, per una platea di colti, a cui non va mai bene niente. Il problema invece sta proprio in una sottovalutazione del pubblico. Chi fa questa musica lo sottovaluta, senza rendersi conto che è la cosa più bella che abbiamo, la più intelligente, la più ricettiva. Quando mi capita di parlare con il Maestro Muti – una delle mosche bianche che cerca di promuovere la cultura, anche tra i giovani, in questo Paese – gli dico scher- zando che dovremmo occupare il Tg1 e al posto delle notizie di guerra, di crisi – che tanto sono sempre uguali da 50 anni – mandare in onda forzatamente le sinfonie di Beethoven, puntare a una dittatura culturale. Sono sicuro che dopo un po’ cambierebbe l’approccio verso la classica».

100 Cellos 2022

I 100 Cellos nel “concerto fiume” al teatro Alighieri (2022, foto Marco Borrelli)

Colpa della comunicazione quindi, ma anche dei musicisti stessi?
«Certo, chi fa musica colta ha una grandissima responsabilità. Ma fino a quando il concerto sarà una sorta di liturgia sacra, in cui il pubblico che paga non può neanche starnutire o applaudire quando gli pare, deve restare fermo immobile per due-tre ore… La bellezza dei 100 violoncelli sta proprio nel fatto che io una sinfonia manco te la faccio tutta. E poi ti faccio anche cantare, ti faccio salire sul palco se vuoi. Noi cerchiamo di ricostruire un rapporto con il pubblico che si è spezzato. La nostra è una provocazione che vuole essere una riconciliazione, un modo per chiedere scusa a nome di tutta una serie di colpevoli della mia categoria. Una volta recuperato, potremo scrivere nuove regole di convivenza e rendere quello tra artisti e pubblico un rapporto equo».

Come sei diventato, invece, un bonus del Fantasanremo?
«(Ride, ndr) È nato tutto molto spontaneamente: gli organizzatori mi seguivano sui social, commentavano, facevano meme; io rispondevo, facevo “like” e mi sono ritrovato nel regolamento del gioco. Ho ricevuto un sacco di messaggi: la gente voleva sapere quali sarebbero stati i “miei” artisti, per puntare al bonus. Mi sono dovuto chiudere in un silenzio assoluto per non falsare il gioco. Si è comunque creato un caso mediatico che mi ha fatto piacere e divertire».

Anche a Sanremo ti sei speso per abbattere un po’ di barriere, quelle tra i pezzi sanremesi e tutti gli altri…
«C’era un’epoca in cui si scriveva la canzone per Sanremo: era l’inizio della fine per quel tipo di festival. Negli ultimi anni invece si è solo pensato se un pezzo potesse funzionare o meno, fregandosene del genere. La cosa non è piaciuta ai vari “loggionisti”, i puristi, che sono la rovina della musica, ma è stato giusto così».

Come sei arrivato a Sanremo?
«Dieci anni fa la prima volta, con Noemi, su richiesta dell’artista. Poi si è instaurato un rapporto con la Sony e nell’ultimo anno anche con altre etichette, che mi ha riportato all’Ariston, dove vado sempre volentieri».

PFM 2022 Tour

La PFM, protagonista con i 100 Cellos del concerto del 19 giugno al Ravenna Festival dedicato al prog rock

Con tanto di vittoria insieme ai Maneskin…
«È stato divertentissimo, per uno come me che fin da bambino era appassionato di rock e di musica classica: avevo delle cassette con Beethoven da un lato e gli Iron Maiden sull’altro, mi provocavano lo stesso impeto. Mi fa ridere sentire persone superficiali che ci raccontano quanto rilassa la musica classica; io invece se l’ascolto prima di andare a letto non riesco a dormire. Così, per tornare ai Maneskin, quando mi è capitato di aver sotto mano in una finestra come Sanremo un pezzo bello tosto come il loro ho subito pensato: “qua ci divertiamo”. Conoscevo bene come si infila un’orchestra classica dentro un brano rock, era un bocconcino prelibato, sapevo che li avrei fatti saltare per aria. Ho scritto così un arrangiamento virtuosistico in controtendenza rispetto ai canoni, ho premuto sull’acceleratore e ha funzionato: per quell’arrangiamento ho ricevuto messaggi e commenti in tutte le lingue del mondo. Ai Maneskin posso solo augurare di raggiungere vette sempre più alte, come stanno facendo, sono ragazzi seri, onesti e soprattutto che lavorano sodo: la differenza con molti altri gruppi è che loro vanno davvero in sala prove tutti i giorni».

Eri anche all’Eurovision, cosa pensi della vittoria dell’Ucraina?
«Che almeno hanno avuto il coraggio di portare un pezzo che non si vergogna delle loro tradizioni. Non come i rumeni, per esempio, che hanno puntato su un’orribile roba reggaeton. Però l’Eurovision sarebbe una gara. Quindi se l’Ucraina deve vincere le Olimpiadi o non so che altro, che ce lo dicano prima…».

Come è sopravvissuta la cultura in Italia dopo gli anni più duri della pandemia? Come ti sembra stia rispondendo ora il pubblico?
«Personalmente mi sono salvato grazie al fatto di essere un musicista per fortuna di livello superiore, di avere dato vita a tanti progetti diversi. Ma il settore è stato duramente colpito dai nostri governanti, che se ne fregano dei musicisti, era l’ultimo dei loro problemi, anche perché da parte nostra non abbiamo rappresentanze unitarie in grado di battersi davvero per i nostri diritti. In generale, comunque, anche tra il pubblico, il danno psicologico è stato violentissimo. Ora vedo entusiasmo, un sacco di voglia di partecipare, ma forse un po’ troppe offerte, per recuperare il tempo perduto. Un po’ di buon senso non guasterebbe…».

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