Pier Paolo Pasolini (e la musica) secondo Vasco Brondi

“Comizio musicale” del cantautore in omaggio al poeta il 30 giugno a Cervia. «La sua spudorata sincerità continua ad essere un insegnamento. Io spero di essere stato per qualcuno una conferma che è possibile seguire la propria strada, senza seguire mode»

Vasco Brondi

Vasco Brondi (foto Max Gardelli)

Sarà Vasco Brondi – tra i migliori cantautori italiani del nuovo secolo, nascosto per oltre dieci anni dietro il progetto Le Luci della Centrale Elettrica – a rendere omaggio a Pier Paolo Pasolini il 30 giugno all’arena dello Stadio dei Pini di Cervia. Gli abbiamo fatto qualche domanda.

Come è nato e come si svolgerà lo spettacolo? Con quale criterio legherai le tue canzoni a PPP?
«Ho pensato che la voce e la scrittura di Pasolini possano essere un filo conduttore che attraversa il concerto e ho scelto delle canzoni che fossero proprio un controcanto ai temi toccati da Pasolini. Poi ho pensato di coinvolgere altri artisti che stimo molto, ci sarà Emanuele Trevi che è uno scrittore che amo e un grande esperto di Pasolini. Il suo romanzo Qualcosa di scritto è stato per me una grande fonte di ispirazione. E poi ci saranno Davide Toffolo, che disegnando dal vivo creerà la scenografia in movimento dello spettacolo basandosi sulla sua graphic novel Pasolini, e l’attrice Valentina Lodovini, che interpreterà alcuni scritti di Pasolini».

Qual è il tuo rapporto con Pasolini? Qual è l’insegnamento maggiore che ci ha lasciato, a distanza di decenni?
«L’ho conosciuto come poeta e poi ho scoperto tutto il resto. La sua spudorata sincerità continua a essere un insegnamento. La sua mancanza di paura di superare confini artistici, i suoi esperimenti con la verità».

Senza troppe forzature, puoi essere definito una sorta di Pasolini della musica italiana, nel senso che il tuo esordio con Le Luci ha rappresentato senza dubbio una rottura con il modo di fare il cantautore da queste parti. A distanza di anni, cos’hai portato di nuovo secondo te a quei tempi? Hai aperto una nuova strada?
«Non sono cose che spetta a me dire. Io ho avuto la fortuna di esordire senza conoscere le regole del gioco e questa ignoranza mi ha dato grande libertà di infrangerle. Non sapevo cosa funzionava in Italia, non conoscevo la scena musicale, non avevo mai letto una rivista musicale, ero un po’ un alieno anche a Ferrara dove in quel periodo tutti suonavano crossover e cantavano in inglese. Quando arrivavo in sala prove mi facevo il vuoto attorno… I miei ascolti si erano fermati agli anni Novanta, ai CSI, e nel frattempo nel 2007 se li erano dimenticati. Così sembrava che stessi portando un attitudine completamente nuova rispetto a quello che facevano le band alternative in quel momento. Spero di essere stato per qualcuno una conferma che è possibile seguire la propria strada, per quanto tortuosa, senza dover cambiare con le mode musicali del momento».

Davide Toffolo Fumetti

Davide Toffolo

Quanto c’è della tua vita nei testi? Quanto c’è di “vero”?
«Mi viene in mente un disco bellissimo di Fiona Apple che si intitola Extraordinary Machine. In un’intervista diceva di essere lei quella macchina straordinaria perché nel disco ha trasformato delle cose difficili che le sono successe in canzoni, in storie. C’è tutto di reale dentro ma questo non vuol dire che siano mie autobiografie. Dopo che aveva girato Paris Texas hanno chiesto a Wim Wenders se si trattava di una storia vera e lui ha risposto “Adesso sì”».

Continuando nella forzatura pasoliniana, cosa rispondi a chi ti accusa di esserti “imborghesito” musicalmente? Come vivi il passaggio verso la maturità, artistica e non?
«È una stupidaggine associare a questo concetto l’“imborghesimento”. Questo è un lavoro privilegiato anche perché ti obbliga ad evolverti come essere umano per evolvere quello che crei. Credo sia uno stereotipo pensare che uno alla prima opera sia completamente puro e libero e che poi si perda qualcosa, credo sia quasi il contrario. Dopo anni le possibilità di esprimerti aumentano e sei sempre più indipendente dall’approvazione altrui, non hai paura di deludere gli altri o di superare dei confini. Per me ogni disco è come togliere uno strato e andare più in profondità. Al primo disco avevo timore di mettere un violoncello perché poteva essere troppo classico o una cassa dritta perché troppo elettronica, adesso non sono più problemi che mi pongo, seguo le strade che mi sembrano più giuste per quello che voglio dire».

Che rapporto hai con la musica pop? Come mai il confine tra pop e “alternativo” si è così assottigliato negli anni? È una cosa positiva? Andresti al Festival di Sanremo come concorrente, per esempio?
«Per me i grandi artisti sono quelli che hanno un loro percorso profondo e personale ma che riescono anche a essere popolari: penso a Battiato, a Lucio Dalla, a Fellini o lo stesso Pasolini, ora per esempio penso ad Alice Rohrwacher che è una regista che amo, e a tanti e tante altre. Sono quindici anni che faccio dischi e credo che le canzoni si possano difendere da sole sia che le suoni a Sanremo, in un centro sociale, su un palco in riva al mare o al karaoke di un bar di periferia. L’importante è che resti la ricerca che nella musica è spesso solo una ricerca di successo e non una ricerca esistenziale e artistica».

Valentina Lodovini Attrice

Valentina Lodovini

Le Luci della Centrale Elettrica è un capitolo chiuso? Progetti futuri, musicali e non?
«Sì è un capitolo chiuso anche se è stato quasi un atto psicomagico, più simbolico e intimo che altro. Per il resto il cantiere è sempre aperto, scrivo e suono, viaggio, leggo, mi guardo dentro e attorno. Quest’estate faremo un po’ di concerti e intanto sto registrando delle nuove canzoni che vedremo dove andranno».

Cosa ti ha spinto a fare musica? Quanto hanno influito i tuoi ascolti? E, allo stesso modo, a scrivere?
«Queste forze che ci spingono a fare qualcosa sono dei misteri per me. Mi rendo sempre più conto che non decidiamo noi cosa desiderare: per me è stata un’urgenza istintiva e anche adesso dopo qualche tempo che non suono torna questa forza che mi spinge a prendere la chitarra e a cantare che io lo voglia o meno. Ho iniziato a suonare a sedici anni il basso in un gruppo punk con due miei amici e poi ho scoperto i grandi cantautori che ascoltavo di nascosto dai miei amici e credo che nel corto circuito tra queste cose siano uscite le mie canzoni».

Chiudendo con un’altra citazione pasoliniana: cos’è oggi il fascismo per te? E, in ultimo, quanto un artista deve esporsi su “attualità” e “politica”?
«Non è importante cosa sia per me il fascismo, il fascismo è qualcosa di oggettivo e storico di cui ci sono ancora tracce nel presente. Credo che un artista viva esposto, io sento di essere cresciuto in qualche modo in pubblico e molto più profondamente che non nell’esporre la proprio inutile quotidianità sui social network. Devo proprio aprire la mente e il cuore agli altri. Da quello che fai si capisce quale è il tuo modo di vedere la vita o la società. Credo sia importante che le canzoni non siano schiacciate solo sull’attualità ma che abbiano dentro una scintilla di eternità».

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