Pasolini regista, autodidatta con l’occhio sul reale, in visione alla Rocca

Panoramica sulla sua filmografia alla vigilia della rassegna ravennate al via mercoledì 8 giugno, con il documentario di Giuseppe Bertolucci

Pier Paolo Pasolini Regista

Da spettatore, seduto in una sala buia, probabilmente fumosa, col pulviscolo illuminato dal fascio di luce del proiettore, così – per molti – nasce la passione per la settima arte. Al giovane Pier Paolo Pasolini andare al cinema piace: Charlie Chaplin, Carl T. Dreyer, Sergej Ejzenštejn, sono gli autori che riconoscerà come più influenti sul suo gusto e sul suo stile.
Il primo contatto con la caoticità del set Pasolini lo ha da squattrinato adulto che deve reinventarsi una vita, appena arrivato a Roma dopo la fuga rocambolesca dallo scandalo di Casarsa. Per racimolare qualche soldo in più spesso frequenta gli stabilimenti di Cinecittà come comparsa.

È l’amico Mario Soldati che negli anni ’50 – finalmente ripresa l’attività letteraria e giornalistica – lo trasforma in apprezzato sceneggiatore, con collaborazioni importanti per autori come Mauro Bolognini e Federico Fellini. Nel 1961, a 39 anni – dopo aver smosso con forza le acque stagnanti dell’establishment culturale italiano dell’epoca con poesie, articoli, saggi e romanzi memorabili (il 1959 è per lui l’anno del successo internazionale con la pubblicazione de Una vita violenta) – PPP passa dietro la cinepresa dirigendo Accattone, suo primo lungometraggio.

La scelta di dedicarsi alla regia giunge spontanea, quasi a placare l’inquietudine creativa che da sempre caratterizza Pasolini come artista e intellettuale multiforme. Il cinema è l’ennesimo mezzo da scoprire e fare proprio. Egli stesso dichiara di voler esprimersi utilizzando finalmente «una tecnica diversa, di cui non sapevo nulla», un autodidatta che non ha frequentato scuole specialistiche, uno che al primo giorno di riprese non conosce la differenza tra «panoramica e carrellata».

L’autore è alla continua ricerca di nuove modalità di rappresentazione, di contatto col mondo che lo circonda. C’è poi l’impellente necessità di confronto con uno degli allora principali mezzi di comunicazione di massa, quel cinema terreno fertilissimo per la cultura borghese imperante. Pasolini vuole raggiungere più gente. Pasolini lancia una sfida. La cinepresa diviene un naturale proseguimento della sua incisiva penna, il linguaggio cinematografico per lui non è prosa, narrazione, ma poesia, lirica. E Il cinema di poesia (1965) è infatti il titolo di una relazione tenuta dal nostro durante gli storici convegni critici della Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, luogo d’incontro e scambio fondamentale per la cinematografia nazionale. Da Accattone, il folgorante debutto, fino al disperato Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975), sono pochi i cineasti che seppero come lui accompagnare la pratica artistica con una costante riflessione teorica sul mezzo d’espressione.

Accattone – film liminare da vedere e rivedere – è il manifesto di alcune delle fondamentali tematiche che Pasolini cineasta andrà sviluppando durante l’arco di una carriera ricca e intensa (purtroppo crudelmente interrotta) all’insegna di un cinema votato alla crescita morale piuttosto che al puro svagare o al deprecabile indottrinare. Elenchiamo allora l’ispirazione pittorica, l’uso spregiudicato delle tecniche di ripresa, la potenza comunicativa delle inquadrature, delle sole immagini – un richiamo all’utopia dell’era del Muto quando il cinema era visto come linguaggio universalmente comprensibile –, il realismo, il distanziamento dal neorealismo di Zavattini, l’utilizzo particolare delle musiche, l’accostamento tra sacro e profano, la preferenza per gli attori non professionisti (ma chi dimentica le straordinarie interpretazioni pasoliniane dei mostri sacri Anna Magnani in Mamma Roma, Orson Welles ne La ricotta e ancora Silvana Mangano, Totò, Ugo Tognazzi, Terence Stamp…). E naturalmente la questione sociale, l’occhio sul reale, la denuncia (non scordiamo i suoi documentari, i film inchiesta come Comizi d’amore del 1963-64), la costante riflessione politica.

Attraverso la sua esperienza artistica, ma anche attraverso i suoi interventi pubblici su stampa e tv, Pasolini non risparmia mai critiche polemiche e lucidissime al sistema, al mondo politico ed intellettuale, mettendo in guardia la società dai pericoli e dalle insidie fascinose della “rivoluzione borghese” in atto nell’Italia del boom economico. Tuttora drammaticamente attuali, andrebbe aggiunto.

La nuova edizione di Ravenna Festival celebra il centenario di quest’uomo unico e dedica uno spazio in cartellone alla sua produzione filmica. Lo fa con una speciale retrospettiva alla Rocca Brancaleone, in collaborazione con la rassegna “Rocca Cinema”.

Il 15 giugno vedremo Medea (1969), tra i film più iconici e famosi dell’autore, grazie alla scelta dell’interprete principale: Maria – la Divina – Callas. Lei è Medea, la maga che si innamora di Giasone e che lo aiuta nella conquista del Vello d’Oro. Ma Giasone vuole lasciarla per sposare la figlia del re di Corinto. Medea si vendicherà. Il mito greco rivisitato diviene metafora odierna: da una parte il mondo arcaico della donna, in armonia con la natura, dall’altra il regno della polis greca dell’uomo, basato su alienazione e rinnegamento dei valori più spontanei.

Mercoledì 22 giugno è la volta di Uccellacci e uccellini (1966), la pellicola che PPP definì la più povera ma anche la più bella della sua filmografia, quella forse più vicina al suo concetto di cinema di poesia. Il tema è la crisi politica del Pci e del marxismo in versione “ideocomica”. Film non facile per il pubblico coevo che al botteghino non gradì, nonostante la presenza di una figura tanto amata come Totò, Ninetto Davoli fa da spalla. I due vagano per i dintorni di Roma assieme ad un corvo parlante, un intellettuale di sinistra filo togliattiano. Alle musiche Ennio Morricone che arrangia Mozart e Modugno.

In chiusura il 29 giugno, ll Vangelo secondo Matteo (1964): la fedele rappresentazione del vangelo, dall’annunciazione alla resurrezione, proposta da un artista fortemente laico. Accanto all’aura divina e misteriosa, Pasolini dà al suo messia un carattere rivoluzionario e sovversivo, un uomo portatore di verità radicali. Come lo stesso attore che lo interpreta, il sindacalista catalano Enrique Irazoqui che era in Italia in cerca d’appoggio contro il regime franchista. Martin Scorsese – che anni dopo si cimenterà con lo stesso argomento – lo ha definito come il miglior film mai girato sulla figura del Cristo.

Ma l’inizio della retrospettiva, mercoledì 8 giugno, è con un film non di Pasolini ma su Pasolini, un film necessario, un testamento: Pasolini prossimo nostro (2006) di Giuseppe Bertolucci. Un documentario creato con le immagini di Salò e quelle dal suo set, con PPP che rilascia una lunga intervista al giornalista Gideon Bachmann. Scegliendo tra oltre 50 ore di conversazioni inedite e trascrizioni audio, 3.000 metri di negativo, 7.200 scatti della fotografa di scena Deborah Beer, Bertolucci dà voce all’ultimo Pasolini, un profeta malinconico e rinnegato da una società devastata dall’omologazione culturale e dagli abusi di potere, quella società che proprio in Salò trova la sua spaventosa allegoria.

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