lunedì
30 Giugno 2025
l'intervista

La vita e la morte secondo Beckett: «Ritmo, risate e vuoti d’aria»

Maurizio Lupinelli e il suo nuovo spettacolo con il coinvolgimento di attori disabili

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Da anni Nerval Teatro attraversa la drammaturgia di Samuel Beckett con gli attori e le attrici con disabilità del Laboratorio Permanente che Maurizio Lupinelli (regista, attore e fondatore nel 2007 della compagnia insieme a Elisa Pol) cura a Rosignano Marittimo, in Toscana, e a Ravenna. Ora però – ancora una volta con i protagonisti dei laboratori – l’asticella si alza ulteriormente e il tentativo è quello di misurarsi per la prima volta con un testo integrale, quello di Finale di partita (ideato insieme a Elisa Pol, che ne è anche aiuto regista), che vedremo in scena l’1 e il 2 luglio all’Almagià.  È lo stesso Lupinelli a raccontarci il percorso di una sfida complessa e affascinante.

Maurizio, siamo arrivati all’ultimo passo di un progetto che arriva da lontano.
«Sì, un ultimo passo importante che si presenta come un azzardo, ma non tanto per l’opera di Beckett in sé, visto che negli anni ho scoperto, lavorando con queste persone particolari, che i personaggi beckettiani si avvicinano molto a queste figure. No, l’azzardo è il testo integrale, far macinare le battute, mantenere quelle parole, anche perché i diritti d’autore su Beckett sono abbastanza rigidi. E quindi, laddove il nostro precedente spettacolo, La buca, era liberamente ispirato da tutta una serie di frammenti beckettiani che permettevano più libertà, qui invece affrontiamo una modalità di lavoro molto più complessa. Finale di partita è tante cose, che mi piacerebbe emergessero. Siamo in un momento molto particolare della nostra società, dove tutto è veloce, tutto è il contrario di tutto, il testo di Beckett invece ci riporta alle basi, ai nodi fondamentali, la vita e la morte, quello che va bene o che va male, questioni che se non ti ci metti non affronterai mai. È una linea di confine, è un’opera da cui esce un’umanità sì lacerata, ma viva. Un gioco continuo in cui è come se Beckett ci dicesse “beh, è meglio essere in questa piccola striscia di terra in mezzo che essere o di qua o di là”. È su questo che vorrei giocare, e l’altra cosa che mi interessa vedere è come risulterà nello spettacolo il rapporto tra un normo-dotato e un diversamente abile. Quello che mi immagino, e che vorrei per questo lavoro, è che sia scoppiettante, di gran ritmo, di risate e anche di “vuoti d’aria”, come li definisco io. Lo spazio scenico sarà molto particolare, non sarà il solito Finale di partita, anche se gli elementi saranno quelli».

Come hai lavorato?
«Quando ho fatto La buca con l’attore diversamente abile Carlo De Leonardo, che sarà anche in Finale di partita, è chiaro che non gli ho raccontato tutto il testo, abbiamo analizzato delle parti, delle situazioni e ho lasciato a lui la libertà di capire cosa significassero, per lui, quelle situazioni. I silenzi, lo sguardo, le attese, inventare delle battute, quello l’ha capito perfettamente, e nel momento in cui ha capito ciò, il testo è venuto fuori da sé. Quando ho iniziato ad affrontare Beckett con i partecipanti ai laboratori, oltre dieci anni fa, abbiamo scoperto insieme delle grandi affinità, anche se uno potrebbe pensare che con Beckett, scrittore fine e complesso, sia molto difficile far percepire a questi ragazzi tutte le tematiche messe in campo nelle sue drammaturgie, tutto ciò che c’è nei suoi testi. Invece quelle beckettiane sono questioni che ci hanno portato con naturalezza a un certo tipo di soluzione. I ragazzi ci sono entrati giocando, partendo magari anche dalle cose più banali. Prendiamo ad esempio Aspettando Godot.

Dunque l’aspettare, l’attesa. Per queste persone cosa vuol dire aspettare?
«Per molti aspettare è vivere. È da lì che abbiamo iniziato, dalle loro mancanze, dall’analizzare piccoli concetti – aspettare, cosa guardano, che tipo di gestualità hanno, che cosa farebbero quando camminano –, e nel momento in cui abbiamo messo in atto questi giochi molto semplici ecco che è come se avessero trovato una loro drammaturgia, le loro pause, i loro silenzi, il loro saper guardare veramente. Quello mi ha insegnato come affrontare Beckett».

Quali sono le specificità di Finale di partita?
«A differenza degli altri testi di Beckett, questo è quello più chiuso, quello più “duro”, però allo stesso tempo, se lo vai a rileggere attentamente, anche qui c’è una profonda ironia, c’è un gioco. La differenza è che ci sono tre situazioni immobili. Abbiamo sempre detto che i testi e i personaggi di Beckett sono tutti monchi. In Giorni felici la protagonista Winnie è inchiodata, interrata, in Aspettando Godot Vladimiro ed Estragone non escono mai. In Finale di partita, Clov non riesce a sedersi, Hamm è paralizzato, i genitori sono senza le gambe, tutte mancanze, ferite. Allora mi sono detto che era proprio su questo che bisognava provare a giocare».

Qual è la scommessa grande?
«Che qui il testo lo volevo fare tutto, usare quelle parole stesse, mantenendo però la possibilità di giocare nelle situazioni, perché in realtà, battute e tempi di Finale di partita sono molto surreali. Anche qui non si capisce la situazione. Sono già tutti morti? Perché l’azione potrebbe prendere luogo in un obitorio, potrebbe svolgersi sottoterra, o potrebbe anche essere un meccanismo alla Aspettando Godot, in cui tutti i giorni c’è la stessa dinamica e ogni volta potrebbe essere il momento per chiedersi “è finita? O andiamo ancora avanti?”. In scena saremo due attori professionisti, io e Barbara Caviglia – attrice ligure che ha fatto con me Le lacrime amare di Petra von Kant –, e due attori diversamente abili con cui lavoriamo da tanti anni, uno appunto è Carlo De Leonardo, che fa parte del laboratorio Teatro e Differenza di Ravenna, l’altro è Matteo Salza, attore del laboratorio toscano, anche lui molto bravo».

Facciamo un passo indietro. C’è stato un momento, tempo fa, all’inizio del tuo lavoro con le persone con disabilità, in cui ti sei trovato in crisi. Com’è andata?

«Dal lavoro con queste persone ho imparato moltissimo, sia come attore che come regista, perché mi ha costretto a “stare dietro”. Come dico ormai da anni, io adesso sono un fantasma, ho messo da parte la mia velleità artistica e ho cercato di lavorare con loro, ma per loro. Fino al 2012 ero io stesso l’anima di tutto il lavoro svolto con le persone dei laboratori a Rosignano, ero in scena con loro ma facevo le cose che volevo io, decidevo tutto io, dai testi in giù. E intervenivo teatralmente. A un certo punto però mi sono accorto, con mia sgradita sorpresa, che queste persone non si rendevano conto di quello che facevano, proprio perché ero io il centro di tutto. Li facevo ripetere mille volte una battuta e magari alla fine la dicevano bene, ma sentivo che c’era qualcosa che non quadrava e andai in crisi, tanto che mi rivolsi all’allora direttore del festival di Castiglioncello, che ci produceva, per dirgli che non me la sentivo più di fare spettacolo con i partecipanti ai laboratori. Lui mi consigliò di prendere tempo, di non sentirmi obbligato a realizzare uno spettacolo e magari di fare solo laboratori per un po’, in attesa di capire, senza perdere la speranza. In quel momento di grande cecità e disperazione ho cominciato a lavorare in modo diverso con questi ragazzi, partendo da tutt’altre prospettive, tutt’altri approcci. Partii con esperienze molto basiche, legate ad esempio ai colori o al buio. Facevamo cose inusuali, tipo laboratori in costume da bagno, oppure concentrandoci solo su un unico elemento scenico, come una valigia, che ognuno poteva usare come voleva.
Anche il lavoro sui silenzi è stato importante, perché mi ha portato a guardare tutte quelle facce, che prima non guardavo, le consideravo solo elementi dell’opera. E invece, mi resi conto, guarda che belle facce! È stato come mettere in campo una lente d’ingrandimento. Ho iniziato a capire che loro, così, prendevano una sorta di “fisicità”, emergevano con le loro forze, è stata un’illuminazione. Nel 2014 ho poi cominciato a lavorare con loro sull’aspettare.
Ho ricordato il mio passato di spettatore di Beckett. Secondo me in Italia Beckett non è mai stato fatto bene, l’unico davvero incredibile, Aspettando Godot, lo vidi nel 1989 a Venezia con in scena Giorgio Gaber, Enzo Jannacci, Felice Andreasi e Paolo Rossi. Indimenticabile. E da allora ho sempre avuto negli occhi quella cosa lì, quell’energia, quell’improvvisazione meravigliosa, quella spontaneità. Alla fine ho capito come dovevo lavorare: dovevo retrocedere io e lasciare a loro la libertà, perché così riuscivano a dare un senso a ciò che facevano, lo capivano».

Il percorso beckettiano che hai portato avanti con Elisa Pol sta terminando, Nerval sta lavorando a qualcos’altro?
«Sì, con il laboratorio Teatro e differenza di Ravenna e quello di Castiglioncello lavoreremo per i prossimi tre anni sull’opera di Peter Handke – sceneggiatore di Wim Wenders e premio Nobel per la letteratura – L’ora in cui non sapevamo niente l’uno dell’altro, un testo molto bello del ‘92. lo stiamo portando avanti pian piano. Saranno due spettacoli, uno con i ragazzi di Ravenna e l’altro con quelli toscani. Probabilmente ci sarà anche una collaborazione con la scuola Umanamente di Milano, che fa capo al Teatro degli Incamminati»

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