Sono le aziende e le loro storie che possono raccontare concretamente lo stato di salute del mondo offshore ravennate. Abbiamo preso due casi significativi come Hydro Drilling e Western Atlas
La società fino a qualche anno fa aveva sede legale ad Alessandria e base operativa a Ravenna ma una ristrutturazione complessiva, a seguito di vicende che hanno riguardo solo la capogruppo, ha modificato l’assetto: entro il 2017 l’azienda sarà pienamente ravennate. Il biennio più difficile è stato il 2014-15: tra prima e dopo, pur restando sempre in attivo, il fatturato della Hydro è passato da 80 milioni all’anno alla metà. Oggi conta circa un centinaio di addetti (per cui è stato fatto ricorso agli ammortizzatori sociali in attesa che il settore si rimetta in moto) e si occupa di manutenzione e operazioni anche a terra.
Dagli uffici Hydro, ovviamente presente con il suo stand tra i padiglioni di Omc al Pala De Andrè, si guarda con impazienza al ruolo di Eni: il Cane a sei zampe è il vero ago della bilancia avendo la possibilità di investire capitali importanti.
Il futuro? Potrebbe svilupparsi lungo tre strade. Da una parte il decomissioning, cioè la dismissione degli impianti, la nuova frontiera: solo al largo di Ravenna ci sono un centinaia di pozzi da chiudere. Che significa operazioni tecniche specializzate. Aprendo anche scenari nuovi di riutilizzo delle piattaforme: non mancano i progetti nell’offshore italiano per trasformare piattaforme dismesse in una sorta di musei dell’attività, attrazioni turistiche fuori dagli schemi. L’altra ipotesi è invece l’investimento in nuove tecnologie per riaprire giacimenti chiusi ma che possono tornare produttivi grazie alle nuove conoscenze. Un esempio: la profondità raggiunta dagli impianti è andata crescendo con il passare degli anni e questo ha permesso di raggiungere altre sacche di idrocarburi.