Estrazioni, chi resiste e chi molla: i casi Hydro Drilling e Western Atlas

Sono le aziende e le loro storie che possono raccontare concretamente lo stato di salute del mondo offshore ravennate. Abbiamo preso due casi significativi come Hydro Drilling e Western Atlas

L’unico impianto di perforazione ancora attivo nel mare Adriatico è di proprietà di una società di Ravenna, la Hydro Drilling che opera su commissione di Eni. La struttura è operativa da oltre vent’anni in vari possi e oggi è sulle piattaforme del giacimento Barbara, circa 50miglia al largo di Ancona. Qualche anno fa impianti come quello erano quattro-cinque nelle acque adriatiche. Un segno della crisi che sta vivendo il settore delle estrazioni.

La società fino a qualche anno fa aveva sede legale ad Alessandria e base operativa a Ravenna ma una ristrutturazione complessiva, a seguito di vicende che hanno riguardo solo la capogruppo, ha modificato l’assetto: entro il 2017 l’azienda sarà pienamente ravennate. Il biennio più difficile è stato il 2014-15: tra prima e dopo, pur restando sempre in attivo, il fatturato della Hydro è passato da 80 milioni all’anno alla metà. Oggi conta circa un centinaio di addetti (per cui è stato fatto ricorso agli ammortizzatori sociali in attesa che il settore si rimetta in moto) e si occupa di manutenzione e operazioni anche a terra.

Dagli uffici Hydro, ovviamente presente con il suo stand tra i padiglioni di Omc al Pala De Andrè, si guarda con impazienza al ruolo di Eni: il Cane a sei zampe è il vero ago della bilancia avendo la possibilità di investire capitali importanti.

Il futuro? Potrebbe svilupparsi lungo tre strade. Da una parte il decomissioning, cioè la dismissione degli impianti, la nuova frontiera: solo al largo di Ravenna ci sono un centinaia di pozzi da chiudere. Che significa operazioni tecniche specializzate. Aprendo anche scenari nuovi di riutilizzo delle piattaforme: non mancano i progetti nell’offshore italiano per trasformare piattaforme dismesse in una sorta di musei dell’attività, attrazioni turistiche fuori dagli schemi. L’altra ipotesi è invece l’investimento in nuove tecnologie per riaprire giacimenti chiusi ma che possono tornare produttivi grazie alle nuove conoscenze. Un esempio: la profondità raggiunta dagli impianti è andata crescendo con il passare degli anni e questo ha permesso di raggiungere altre sacche di idrocarburi.

26072016 L1090391Diversa invece la vicenda Western Atlas, l’ultima azienda a sparire dal panorama offshore ravennate dopo trent’anni di radicamento nel territorio. Alla fine del 2016 l’azienda del gruppo Baker Hughes ha presentato quello che riteneva essere il piano di gestione dell’impatto sociale offrendo cinquemila euro a ognuno dei 45 lavoratori licenziati. I primi 27 dipendenti sono stati licenziati a novembre, gli altri 19 nei 120 giorni previsti dalla procedura. E nonostante vi fossero ancora a disposizione mesi di cassa integrazione e contratti di lavoro acquisiti, ancora da onorare. La conferma della chiusura della sede di Ravenna arrivò dall’Abruzzo dove l’azienda ha sede. Tutti i licenziamenti sono stati impugnati davanti al giudice e i sindacati hanno ribadito l’incomprensibilità delle scelte aziendali, «totalmente incoerenti ­– dice Cgil – con il percorso di riorganizzazione attuato dall’azienda stessa per affrontare la crisi che ha colpito l’intero settore negli ultimi anni». Il cambio di rotta è avvenuto con il passaggio del management nelle mani di un gruppo russo: «Logiche da multinazionale».

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